“Suss l’ebreo”. Ovvero il cinema commerciale, l’olocausto e le ferite tedesche

Pubblicato il 8 Marzo 2010 - 10:04 OLTRE 6 MESI FA

«Infine, un film antisemita del tipo che si poteva solo augurare». Così scriveva Joseph Goebbels nel suo diario il 18 agosto 1940. Scrivendo queste righe, il gerarca nazista stava riassaporando le immagini del film appena visto, il tristemente celebre «Süss l’ebreo».

La regia era firmata Veit Harlan (più tardi il solo imputato al processo di Norimberga a godere della piena assoluzione) ma la pellicola era la realizzazione di un sogno accarezzato a lungo da Goebbels.

«Süss l’ebreo. Ascesa e declino» esce nelle sale cinematografiche in queste settimane, in ordine di tempo l’ultimo film prodotto in Germania ad affrontare il periodo nazista. L’opera è stata presentata in prima mondiale al Festival Internazionale del Cinema di Berlino e racconta l’«incontro» tra Ferdinand Marian, l’attore che interpretò il ruolo di Süss, e il regime nazista.

La storia della realizzazione e della distribuzione del film antisemita più famoso della storia ha fatto scorrere fiumi di inchiostro e girare molta pellicola. Oggi, uno dei più apprezzati registi tedeschi, Oskar Roehler, riprende in mano il canovaccio di quell’episodio e ne fa un film destinato, a differenza dei predecessori, al grande pubblico.

Le scelte artistiche che hanno guidato la creazione del film non hanno però mancato di provocare controversie. Già alla première di Berlino, la reazione degli spettatori e degli addetti ai lavori non è stata entusiastica. Alla fine del film, sono stati i “buu” a farsi sentire più dei timidi applausi. E, anche prima del rilascio, il biografo di Marian non ha lesinato le critiche nei confronti del film di Roehler.

Il regista Roehler e lo sceneggiatore, Klaus Richter hanno infatti modificato radicalmente la storia. Lo scopo è stato quello di rendere la realtà biografica di Marian una tragedia faustiana incentrata sul patto malefico tra l’attore e i nazisti. Una delle scelte più controverse è stata quella di far diventare la moglie di Marian, Anna, un’ebrea.

Nel film, il personaggio femminile interpretato da Martina Gedeck è un’attrice che nasconde le sue radici ebraiche. Inorridita dalla scelta del marito di interpretare il ruolo dell’avido ebreo Süss in un film antisemita, tenta invano di convincerlo ad emigrare negli Stati Uniti. Marian è però sordo ad ogni richiamo, risucchiato dalle sirene dell’alta società nazista, dove in un’atmosfera di torbida decadenza tutte le donne lo desiderano e tutti successi mondani gli sono offerti. Alla fine, la moglie di Marian finirà i suoi giorni in un campo di concentramento.

«Il nostro cinema non è un documentario – così si è difeso Markus Zimmer uno dei produttori del film – E’ una decisione completamente legittima quella di raccontare una storia in questo modo». Ed ha aggiunto che «il personaggio di Anna è un personaggio in parte inventato, che rappresenta il destino di tanti ebrei dell’industria cinematografica tedesca che furono perseguitati e uccisi durante il terzo Reich».

Dal punto di vista stilistico, il film appartiene al filone dei film tedeschi recenti che hanno affrontato il periodo della Seconda Guerra Mondiale. A tutti gli effetti «Süss l’ebreo» è un dramma storico convenzionale, sebbene sia farcito di scene di sesso (tra cui quella un po’ grottesca di Marian che ha un rapporto con una donna nazista, mentre questa gli grida «Ebreo, ebreo!»).

Alla luce di tutto ciò appare chiaro che Roehler, conosciuto piuttosto per il suo piglio provocatorio, abbia puntato sul conformismo per assicurarsi la possibilità di un premio importante o di un successo di botteghino. Come si dice in America con più che una punta di cinismo «there’s no business, like shoah-business ».

In conclusione, sebbene «Süss l’ebreo» non porti nulla di nuovo da un punto di vista artistico, è interessante, vedere come anche la Germania, dopo tanti anni di difficile rielaborazione del proprio passato, sempre in bilico tra rimozione inconscia e frustrazione collettiva, riesca oggi a fare un film commerciale sull’Olocausto allo stesso modo in cui potrebbe farlo qualsiasi altro paese. Segno, forse, che questa ferita psicologica si sta, infine, rimarginando.