Iraq. Errori degli Usa, così diventa jihadista. Bernardo Valli su Repubblica

di Redazione Blitz
Pubblicato il 14 Giugno 2014 - 09:45 OLTRE 6 MESI FA
Gli errori degli Usa, così l'Iraq diventa jihadista. Bernardo Valli su Repubblica

Gli errori degli Usa, così l’Iraq diventa jihadista. Bernardo Valli su Repubblica

ROMA – Blitz quotidiano vi propone come articolo del giorno, sabato 14 giugno 2014, “Gli errori degli Usa e i ricorsi storici così la Mezzaluna diventa jihadista” di Bernardo Valli su Repubblica:

In questi casi è inevitabile tirare in ballo la storia. È vero che non si ripete, poiché tempi e situazioni mutano, ma capita spesso che si assomigli troppo per non evocarla.
NEI primi giorni del 1973 i soldati combattenti americani lasciano il Sud Vietnam convinti, almeno ufficialmente, che il regime resisterà, e nell’aprile 1975 il Nord Vietnam inghiotte tutto il paese, e i bodoi comunisti entrano a Saigon. Nel 2011 gli americani abbandonano l’Iraq, dichiarando che il regime è abbastanza solido per sopravvivere, e nel 2014 Bagdad è minacciata dalle forze jihadiste dello “Stato islamico in Iraq e nel Levante”. Nei suoi fallimenti la superpotenza rispetta i tempi: più o meno gli stessi mesi di intervallo passano tra il ritiro e il collasso dell’alleato al quale riteneva di avere insegnato a camminare da solo. La carica del robot ha la stessa durata. Poca. Vedremo tra poco in Afghanistan.
In Medio Oriente, come nel Sud Est asiatico quarant’anni fa, le forze armate addestrate, dotate di materiale moderno e finanziate dagli Stati Uniti si stanno rivelando inefficienti sul piano militare e deludenti nelle motivazioni indispensabili a qualsiasi esercito nazionale. A Mosul e a Tikrit, conquistate da poche migliaia di guerriglieri con le bandiere nere dell’Islam, quattro delle quattordici divisioni che compongono l’esercito iracheno hanno abbandonato i loro posti, si sono stracciate di dosso le divise, hanno gettato le armi, lasciandole all’avversario, e si sono disperse. Per creare le forze armate della Repubblica irachena nata dalle rovine della dittatura di Saddam Hussein, in seguito all’invasione americana del 2003, gli Stati Uniti hanno speso circa venticinque miliardi di dollari. E l’Iraq stesso, uno dei maggiori produttori di petrolio del mondo, ha sborsato miliardi per avere dei caccia F-16, dei carri armati M-1, degli elicotteri Apache, dei missili Hellfire. Non poco di questo materiale è adesso in mano ai guerriglieri (che non sarebbero più di cinquemila) la cui offensiva è cominciata con piccoli camion, a cassone scoperto, e con armi leggere. Con pochi mezzi dunque, ma con l’esperienza acquisita nella vicina Siria, da dove provengono in gran parte, richiamati dalla comune fede jihadista che fa di tanti fanatici volontari di diversa provenienza una brigata internazionale efficace.
Benché più numerose e più dotate di mezzi (900 mila uomini: dei quali 271 mila militari e 650 mila poliziotti, che costano più di 14 miliardi) le forze di sicurezza irachene sono indebolite, inquinate dai contrasti comunitari. Nelle divisioni, che si sono disperse più che arrese nelle regioni di Ninive, di Anbar e di Salaheddin, c’erano sunniti, sciiti e curdi, vale a dire esponenti di comunità in aperta lotta. Inoltre esse presidiavano province con una popolazione sunnita, quindi favorevole ai guerriglieri che sono sunniti integralisti. L’esodo in massa dal conglomerato urbano di Mosul non è stato motivato tanto dalla paura dei guerriglieri quanto dal timore della repressione, in particolare aerea, del governo centrale sciita in più occasioni rivelatasi spietata, in particolare nelle zone a maggioranza sunnita. L’odio per Al Maliki, il primo ministro sciita, viene anche dal suo scarso rispetto per la minoranza sunnita che ha governato a lungo il paese senza troppi riguardi per la maggioranza sciita. Adesso le antiche rivalità spesso più di origine comunitaria che religiosa, la rivalsa sciita per le umiliazioni subite e la frustrazione sunnita per il potere perduto, impediscono la convivenza. E Al Maliki non fa nulla per favorirla. Questa sua incapacità lo indebolisce.
Per ora i guerriglieri si sono mossi nelle province sunnite, su un terreno amico, comunque ostile al governo centrale. A Bagdad, dove si alterano quartieri sunniti e sciiti, la situazione sarà un po’ diversa. Anche perché i civili sciiti sono stati nel frattempo armati. Il generale John N. Bednarek, capo della sicurezza nell’ambasciata americana di Bagdad, non è tuttavia ottimista. A una commissione del Senato ha spiegato che non pochi soldati di guardia alla Zona Verde sotto la divisa indossano abiti civili. Sono così pronti a disperdersi nel caso di un attacco. E in quell’area della capitale sono barricati i ministeri, il Parlamento, quel che conta della società politica e le rappresentanze diplomatiche.
Qui si ferma il paragone. Le conseguenze del conflitto nel Sud Est asiatico stanno ormai passando dalla memoria alla storia, mentre quelle del conflitto mediorientale non sono ancora definibili. Là è infatti in corso un terremoto geopolitico che sconvolge la regione.

Promuovendo l’invasione dell’Iraq, nel 2003, George W. Bush, allora alla Casa Bianca, ha tolto la trave portante che sosteneva l’impalcatura della regione. Ha dato un calcio alla storia. Ha messo a rischio il disegno che inglesi e francesi, vincitori della Prima guerra mondiale (1914-1918) avevano applicato sui resti dell’Impero ottomano. Sull’ampio territorio azzittito per secoli i diplomatici avevano creato un Medio Oriente a loro convenienza. Quei confini adesso sono minacciati, vengono modificati o rischiano addirittura di essere cancellati.
I guerriglieri dello Stato islamico in Iraq e nel Levante stanno tentando di creare un futuro stato sunnita che comprenda il Nord-Est siriano e l’Ovest e il Nord iracheni. Alcune di quelle zone hanno importanti giacimenti di petrolio, ma hanno soprattutto un’unità religiosa, o comunitaria, sunnita. Approfittando del confronto tra le due principali correnti dell’Islam, quella sciita e quella sunnita, che domina la vita mediorientale, l’ala radicale sunnita cerca di scavare uno Stato jihadista, di cui si profila già una continuità territoriale, in quella che si chiamava un tempo la Mezzaluna fertile. Uno Stato che si stende, appunto, su parte dell’Iraq e su parte della Siria. Di fatto sulle province sunnite dei due paesi. Se il progetto si concretizzasse verrebbe favorita anche l’unità del Kurdistan, i cui pezzi sono dispersi nei paesi della regione. E dove il livello delle autonomie è in continua crescita.
Invocando la lotta al terrorismo, gli americani hanno invaso undici anni fa l’Iraq portandoci i marines e attirandovi i jihadisti. È il folle risultato dell’operazione di George W. Bush. Inseguiva Al Qaeda, allora assente sulle rive del Tigri e dell’Eufrate, e ha finito col provocare, dopo una lunga guerriglia e un atroce terrorismo, l’approdo di una forma assai più intraprendente di jihadismo. Il movimento dello Stato islamico in Iraq e nel Levante, di cui l’iracheno Abu Bakr Al Baghdadi è il capo, si sta infatti rivelando assai più efficace e risoluto della vecchia Al Qaeda. In Iraq, attraverso le elezioni, l’America ha favorito l’ascesa al potere della maggioranza sciita, la quale invece di cercare una riconciliazione ha perseguitato le comunità sunnite, spingendole ad allearsi con i jihadisti di Al Baghdadi. Al tempo stesso si è creata un’intesa tra le capitali sciite: la Teheran degli ayatollah, la Bagdad del rancoroso Al Maliki e la Damasco dove prevale la setta alauita di Assad. Per Barack Obama è una situazione angosciosa. Si tratta anzitutto di aiutare (senza impegnare soldati) il governo di Bagdad suo alleato. Ma così facendo si trova a fianco di Teheran, una capitale non particolarmente amica. La quale è solidale con Bagdad, nel nome della comune religione. In quanto a Damasco, sostenuta da Bagdad e da Teheran, è sotto accusa per la repressione feroce e per l’uso facile di gas tossici. Inoltre là governa Assad, raìs detestato di cui Washington auspica la destituzione.