Il generale Giap nel ricordo di Bernardo Valli, Ettore Mo e Mimmo Candito

di Redazione Blitz
Pubblicato il 6 Ottobre 2013 - 14:28 OLTRE 6 MESI FA
Il generale Giap nel ricordo di Bernardo Valli, Ettore Mo e Mimmo Candito

(Foto LaPresse)

ROMA – Ci sono tre articoli che devono essere proposti alla lettura, sia per gli autori (Bernardo Valli, Ettore Mo e Mimmo Candito) sia per il soggetto: il generale Giap.

Valli conosce bene il Vietnam, c’è stato, era sergente della Legione Straniera, proprio a Diem Bien Phu, da cui scampò per un avvicendamento di routine pochi giorni prima dell’attacco Vietcong. Ettore Mo ha conosciuto Giap e racconta in prima persona. Mimmo Candito ha visto Giap, gli ha parlato e ricorda.
Valli scrive:

Giap era un generale autodidatta con le qualità di un grande capo militare. Le sue straordinarie doti, nel comando, nella logistica, nella tattica, l’hanno elevato al rango dei più celebrati generali del secolo scorso. È stato giudicato dai suoi avversari, da lui sconfitti, della stessa stoffa di un MacArthur e di un Rommel.

Ma quell’ uomo di non imponente statura, un po’ impacciato, esitante nell’avviare un discorso quasi fosse timido, appassionato di storia, senza la minima frequentazione di un’accademia militare o di una scuola di guerra, nei capitoli di storia, non solo militare, già dedicatigli, supera quei celebri capi di guerra, poiché vi figura come il solo generale che ha sconfitto separatamente due potenze occidentali : la Francia e gli Stati Uniti. Per quel che riguarda questi ultimi è una vittoria senza precedenti. Nessuno li aveva battuti prima di lui. Nessun esercito di quel che chiamavamo terzo mondo aveva mai battuto due eserciti occidentali moderni (a parte la remota vicenda italiana di Adua).

La prima, la Francia, Giap l’ha battuta a Dien Bien Phu nel maggio ’54. I secondi, gli Stati Uniti, li ha costretti ad abbandonare militarmente il Vietnam del Sud, e tre anni dopo, nel ’75, ha sbaragliato il regime che si erano lasciati alle spalle. Costringendo l’ambasciatore americano a fuggire in elicottero con la bandiera stellata sotto il braccio. Se si valutano le conseguenze politiche delle guerre vinte da Giap ci si accorge che ilfiglio di un modesto mandarino del Vietnam centrale è stato uno dei principali personaggi delle seconda metà del XX secolo.

Mimmo Candito scrive:

L’icona che ha consegnato per sempre alla memoria comune la fine ingloriosa dei marines in quel pezzo d’Asia, e dei «puppets» che gli reggevano il governo di Saigon, è quell’ultimo elicottero che si alza strappando dal tetto dell’ambasciata americana con, dentro, il diplomatico che tiene stretta in braccio la bandiera a stelle e strisce e, fuori, appesi al carrello dell’elicottero come vermi disperati, i poveri disgraziati dei suoi collaboratori che scalciano l’aria mentre, da sotto, i vietcong che già stanno prendendo la città allungano verso il cielo le mani per acchiapparli e tirarli giù dal volo che fila via. Che fine amara, d’una spedizione ch’era partita per fermare il «domino« comunista, prendendo a spunto il pum-pum d’una messinscena di cannoniere che si scontravano in mare, per poter dare così una lezione a chi s’illudeva che – battuti i francesi, che anch’essi erano scappati via dall’Indocina a gambe levate, umiliati nella loro grandeur con la brutta batosta di Dien Bien Phu – lo stesso avrebbero potuto fare con i marines e con i loro generali a 3 e 4 stelle.

Ma non era un’illusione, quella, perché andò diversamente da quanto Casa Bianca e Pentagono avevano pronosticato; i generali comandanti che avevano vinto orgogliosamente la Seconda guerra mondiale vennero bruciati uno dopo l’altro nel fallimento delle loro glorie, e l’«Apocalypse Now» diventò il contrappunto d’un inferno liquido e verde che si divorò più di 50 mila uomini nei pantani e nelle giungle del Vietnam. L’Apocalisse la fece lui, questo vecchio signore senza più divisa morto ieri come un decrepito Matusalemme, ch’era poi, sempre lui, lo stesso che aveva mandato a casa i francesi da Dien Bien Phu e aveva inaugurato il tempo feroce della decolonizzazione che avrebbe cambiato la geografia sprezzante dell’Asia e dell’Africa.

Quando gli ricordavi quella terribile foto – ormai che lui era in pensione, a Hanoi, venerato come solo i vecchi eroi possono mostrare di meritare – una foto che, eppure, documentava alla storia una vittoria senza pari, Giap non faceva mostra d’orgoglio ma, sorridendo lievemente, con la grazia sottile degli asiatici, e nel bel francese colto dei suoi studi nei collegi e nelle università dell’Indocina ancora tricolore, diceva altro: che quella foto mostrava, piuttosto, che gli americani non erano preparati alla guerra che stavano combattendo da 10 anni, e che, se in guerra non sei preparato, allora la sconfitta e la fuga sono un passaggio obbligato.

Ettore Mo scrive:

Quando lo incontrai la prima e unica volta nel febbraio del 1998 il generale Vo Nguyên Giap stava per compiere 87 anni: non avrei mai pensato allora, benché fosse in ottima forma, che avrebbe raggiunto la seconda decade del Duemila. Uomo odiato e venerato, resta comunque uno dei massimi protagonisti e dei miti della storia del Vietnam.

Devo a Milena Gabanelli, che era riuscita a instaurare un rapporto privilegiato con la moglie del comandante — Bich Ha — se, dopo tanti rifiuti, mi venne concessa un’intervista: che ebbe luogo nella sua bella casa coloniale al centro di Hanoi. Per una volta, la mia modestissima statura non mi creava problemi, dal momento che l’eroe di Dien Bien Phu e di tante altre epiche battaglie non superava l’uno e sessanta. Aveva trascorso parte della sua vita: nella giungla, in trincea e nelle caverne. «Non sono mai riuscita a fargli infilare le pantofole — si rammaricava la moglie —. Ma anche quando non era al fronte, dedicava il suo tempo ai problemi del Paese, politici, economici, sociali. Da giovane ha fatto anche il giornalista, ma la sua penna era un’arma micidiale».