“Io, sei mesi nei vicoli di Genova a comprare crack per mio figlio…” Tommaso Fregatti e Matteo Indice, Secolo XIX

di Redazione Blitz
Pubblicato il 6 Luglio 2015 - 09:47 OLTRE 6 MESI FA
(foto Ansa)

(foto Ansa)

ROMA – Blitz quotidiano vi propone come articolo del giorno di lunedì 6 luglio 2015 “Io, sei mesi nei vicoli di Genova a comprare crack per mio figlio…” di Tommaso Fregatti e Matteo Indice per il Secolo XIX.

L’incubo cominciava alla sera. «Tra le otto e le dieci mio figlio aveva le crisi, si mordeva e invocava aiuto. Per evitare che la situazione degenerasse uscivo e andavo nei caruggi a comprargli la droga». Simona ha cinquant’anni, fa la commerciante nel levante di Genova. È la mamma di Marco, ex volontario d’una pubblica assistenza «con tanto di brevetto da primo soccorritore», precisa orgogliosa, precipitato nel tunnel del crack a vent’anni. Lei per quasi sei mesi, dall’autunno scorso, gli ha comprato nel centro storico la cocaina da fumare. «Duecento dosi in tutto», racconta. E ha cercato di proteggerlo dal mondo degli spacciatori pensando che «fosse la cosa giusta da fare».

«Conoscevo tutti i pusher» Ma «andava sempre peggio» ed è corsa in caserma, facendo alla fine arrestare i pusher. Simona ha dato il via all’indagine dei carabinieri di San Martino, e nel mirino è finita una banda di senegalesi che spacciano agli studenti. Cristalli di coca da fumare con la pipa: sballo garantito, effetti collaterali devastanti. Il suo incubo è ripercorso come un diario, in tre colloqui con gli investigatori: «È cominciato tutto con l’alcol. Lorenzo prima d’iniziare a bere era uno studente modello. Faceva il volontario , ha avuto diversi riconoscimenti. Ero orgogliosa». È quasi un modo per prendere fiato prima di buttarsi dentro la storia: «Dopo tre mesi ha iniziato con la cocaina, poi è stata la volta del crack. È stato lui a confidarmi tutto:aveva continuamente bisogno di soldi, di poter pagare i debiti accumulati con gli spacciatori».

Descrive le crisi di astinenza: «Si mordeva la lingua, si faceva tagli con un coltello. Io non sapevo cosa fare, ero disperata, avevo paura e mi mancava il respiro». Con le spalle al muro ha deciso, almeno per un po’, di assecondare il figlio nella tossicodipendenza: «Da ottobre ho iniziato a comprare dosi per lui. Sulle prime andavano insieme: io guidavo lo scooter, lui scendeva e comprava droga con i miei soldi. Quando le crisi sono diventate più ravvicinate ho deciso che sarei andata da sola: l’ho fatto perché avevo paura che lui potesse mettersi in pericolo». E quante volte è accaduto?: «Almeno duecento, anche due o tre per sera. Appena me lo chiedeva partivo, ho speso più di diecimila euro».

Ha imparato a riconoscere gli spacciatori, Simona, a trattare con loro: «C’era quello più aggressivo e minaccioso – prosegue – che mi dava l’impressione d’essere un tipo molto violento. Un altro era più comprensivo, lo chiamavano Bingo Bongo. Ricordo che prese da parte mio figlio e gli fece una specie di ramanzina: “È roba che fa schifo, guarda come ti stai riducendo”». Spesso era lei a chiamarli: «Avevo appuntamento in Darsena (a due passi dall’Acquario e dal Museo del Mare, ndr) o in corso Quadrio (ai margini del centro storico vicino al mercato del pesce, ndr): facevo una seconda telefonata e loro comparivano». A un certo punto usa il presente, come se in un flash dovesse descrivere un meccanismo che funziona ancora. E quasi mima la sequenza: «Consegno i soldi, loro sputano la pallina di crack che tengono impacchettata sotto la lingua. Uno mi dice che ne può tenere in bocca pure quaranta». Dopo un po’ di mesi ha provato a dire basta. E Marco ha iniziato a rubare, in casa. «Ha venduto le fedi del mio matrimonio, ha derubato i suoi nonni e la fidanzata del lettore mp3. Prendeva il bancomat dalla borsa di mia mamma, di notte, e andava a prelevare. In un’occasione il mio compagno mi ha detto che gli erano spariti 50 euro dal portafogli ».

Finito il denaro dei familiari, Marco ha iniziato a vendere «il computer, i cellulari, il televisore, altre cose». Poi a distruggere la casa. «Se non soddisfacevo le sue richieste minacciava di uccidersi o di ammazzarmi. Poi spaccava i mobili e usciva. Una volta l’ho recuperato nei vicoli e ho cercato di portarlo all’ospedale: mi ha preso per i capelli e mi ha buttato per terra, costringendomi ad andare nel centro storico per comprare dosi».

«Ne usciremo insieme» «Ogni tanto si presentava nel bar dove lavoro per chiedere da bere, e a un certo punto sono crollata psicologicamente: mi hanno ricoverato, lui è venuto a trovarmi ed era nervosissimo. Mi ha tolto la flebo, lo sa fare bene, e siamo andati ad acquistare droga». Simona riesce nonostante tutto ad accendere la luce: «Ora è in una comunità, sta seguendo tutte le terapie. Mi ha detto che è molto dispiaciuto per il male che mi ha fatto: gli voglio bene e ne usciremo insieme».