Isis, perché i turchi non scendono in campo. Mimmo Candito, La Stampa

di Redazione Blitz
Pubblicato il 13 Ottobre 2014 - 11:40 OLTRE 6 MESI FA
Isis, perché i turchi non scendono in campo. Mimmo Candito, La Stampa

Isis, perché i turchi non scendono in campo. Mimmo Candito, La Stampa

ROMA – Blitz quotidiano vi propone come articolo del giorno di lunedì 13 ottobre “Isis, perché i turchi non scendono in campo” di Mimmo Candito per La Stampa.

Ma perché, dannazione, perché i turchi se ne stanno lì, con i loro carri armati, i loro cannoni, i loro soldati.
Lì a godersi lo spettacolo dei jihadisti dell’Isis che davanti ai loro occhi scannano i peshmerga di Kobane, e nessuno si muove. Non un carro, non un fucile; nessuno. Ma è un pazzo quell’Erdogan, che dice e blatera che bisogna intervenire e però nemmeno ci pensa a ordinare ai suoi di attaccare quegli sgozzatori che pure si vedono lì di fronte, che quasi li tocchi?
No, no, Erdogan non è per niente un pazzo, sa bene quello che vuole: parla per salvare la faccia, e però tiene il freno tirato. E comunque non si muove nessuno – non lui soltanto – perché a comandare l’inerzia di fronte al massacro c’è quella fredda bestia della Realpolitik, che non gliene potrebbe fregare di meno di tutti gli scuotimenti d’animo che tormentano questi giorni di immagini disperate.
I peshmerga «devono» morire, perché la Turchia deve salvare la propria identità kemalista, e perché i curdi sono una minaccia di destabilizzazione che perfino un Iraq e una Siria oggi al di fuori di qualsiasi stabilità appaiono, al loro confronto, un’oasi di tranquillità.

La Turchia moderna, erede dell’Impero Ottomano sconfitto e smembrato nella Prima guerra mondiale, nasce negli Anni Venti con un’impronta ideologica molto rigorosa, dettata dal leader dei giovani ufficiali ribelli, Kemal Pasha Ataturk. Il Padre dei turchi volle che il nuovo Stato nazionale non avesse alcuna delle stimmate che, secondo lui, avevano portato alla sconfitta della Sublime Porta, due soprattutto: un eccesso incontrollabile di nazionalità e di etnie all’interno della sterminata geografia imperiale che andava dall’Atlantico fin quasi alla Cina; e poi (lui che ammirava l’Europa e aveva studiato con passione la pace di Vestfalia) una commistione teocratica inestricabile tra potere religioso e potere politico, che rendeva lenta, macchinosa, e indifendibile, ogni gestione efficace di un Paese a fronte alla modernità che stava cambiando la faccia del mondo.
Dunque: la nuova Turchia sarebbe stata fatta soltanto da «turchi»; e quanto al potere politico – lui stesso, Kemal Pasha – questo non avrebbe avuto alcunché da spartire con il vecchio sultanato di Tokpapi. Il primo atto, la «Turchia dei turchi», comportava la pulizia etnica e lo sterminio di ogni altra nazionalità residua all’interno del nuovo Stato, con il conseguente massacro degli armeni, l’esilio dei greci dall’Asia minore, e la condanna dei curdi (diventeranno presto puri impegni di carta scritta l’accordo Sykes-Picot e il Trattato di Sèvres e di Losanna, che pure riconoscevano in qualche misura una nazionalità armena e una curda).
E quanto alla rottura con il passato, Kemal cancellava ogni traccia pubblica dell’islamismo, aboliva il fez, il velo, perfino le lettere e i numeri dell’alfabeto arabo, sostituiti da quelli latini, e introduceva un codice di giustizia che ignorava la sharia e veniva elaborato sulla base giuridica degli Stati europei, soprattutto quello italiano e quello francese.
Perciò, se oggi i peshmerga di Kobane, che pure si battono con eroismo e chiedono aiuto al mondo, possono però essere un elemento di eventuale contaminazione con la pulizia etnica imposta ai «turchi» un secolo fa, ebbene, allora che muoiano pure. I carri armati, i cannoni, e i soldati con i loro binocoli che guardano dalla collina, non si muoveranno di un solo centimetro da dove li stiamo fotografando ammutoliti e sconcertati.
Ma la storia è, anche, assai più complessa. I curdi sono una popolazione di più di 30 milioni, sparsi in una rete di frontiere dopo il Sykes-Picot tra la Turchia (quasi 20 milioni), l’Iraq (5 milioni), l’Iran (6 milioni), la Siria (1 milione) più la diaspora europea. Un popolo che avrebbe – numericamente – ben più forza di rivendicazione degli appena 5 milioni di palestinesi, e però a differenza dei palestinesi, non ha voce pubblica perché Allah lo ha fatto nascere e vivere su un mare di petrolio, un mare da cui prendono fiumi di dollari un po’ tutti, ma soprattutto Iran (35 per cento della sua produzione) e Iraq (65 per cento). Lasciare un qualche spazio di manovra a un nazionalismo curdo aprirebbe le porte dell’inferno per le geostrategie globali, e scatenerebbe una guerra mondiale dell’energia, tanto più che nel caos ereditato dall’Iraq post-Saddam i curdi iracheni si sono già presi con l’aiuto americano una buona fetta di autonomia politica, possibile radice di un vero «nazionalismo» transfrontaliero; e, dunque, bisogna tenere i curdi sul filo, ma non fargli mai montare troppa speranza, per evitare la deflagrazione che nessun potere internazionale oserebbe mai immaginare, anche quando sbandiera difesa dei diritti umani e riconoscimento della sovranità dei popoli. Tutto ciò si chiama, appunto, Realpolkitik.
A questi due fattori interni, si aggiungono poi le frammentazioni create dalla guerra ad Assad con le varie fazioni in guerra tra di loro, la lotta senza quartiere tra sunniti e sciiti, gli interessi strategici dell’Iran appostato sull’angolo, e anche la evidente perplessità americana a inguaiarsi troppo in una destabilizzazione che davvero accenderebbe il mondo.
A fronte di tutto questo, Kobane è appena un piccolo punto nero sulla carta geografica. Null’altro.