Mauro Mancini, naufrago con Ambrogio Fogar, di fronte alla morte si conferma il grande uomo che era stato sempre

di Marco Benedetto
Pubblicato il 30 Agosto 2009 - 22:18 OLTRE 6 MESI FA

Ambrogio Fogar (sin.) e Mauro Mancini (ds.)

Il Corriere della Sera ha pubblicato domenica sull’edizione cartacea e , dopo mezzogiorno, anche sul sito internet, due lettere inedite di Ambrogio Fogar e Mauro Mancini, un esploratore e un giornalista, alla deriva su un canotto nell’Atlantico dopo che la barca di Fogar, Surprise, sulla quale si erano avventurati in un viaggio ai confini del mondo, era affondata.

Furono recuperati da un mercantile dopo 74 giorni dal naufragio. Fogar sopravvisse, per fare poi comunque una brutta fine; Mancini morì dopo due giorni.

Mancini è stato reso immortale per tutti quelli che vanno per mare, lungo le coste italiane, non solo gli improvvisati naviganti della domenica, ma anche i comandanti di maggiore esperienza, grazie alla collana di libri “Navigare lungocosta” in cui sono date, in modo semplice e comprensibile anche ai più testoni, le informazioni che servono per chi batte i mari italiani. L’editore Luciano Lischi, che era grande amico di Mancini, continua a pubblicarli con successo.

Mancini è immortale nella memoria di chi lo ha conosciuto e non può che ricordarne la bontà, l’umanità, la generosità. Abitava a Firenze, in Por Santa Maria, in quella  torre medievale vicino all’Arno e al Ponte Vecchio. All’epoca non era ancora di moda, e non lo è certo molto neppure adesso, prendersi in casa gente dal passsato burrascoso. Mancini si era fatto dare in una specie di affidamento, un rapinatore e cercava di aiutarlo a reinserirsi.

Non conoscevo Fogar e non l’ho mai voluto conoscere nemmeno dopo. Adoravo Mancini, un grande giornalista ma soprattutto un grande uomo. Reporter di prima qualità, lavorava alla Nazione. Figlio di un ferroviere livornese, partito dalla gavetta in provincia, era diventato un inviato di punta, nonostante fosse un tormento per i direttori e i capi, non rinnegasse per la carriera le sue idee politiche di sinistra e rifiutasse i premi che gli venivano proposti. Seguì il caso Lavorini, seguì le vicende tormentate di cronaca nero-politica della fine degli anni sessanta.

Era un giornalista dal quale un giovane com’ero allora poteva imparare molto: di quelli che non danno nulla per scontato, non credono mai alle fonti, incrociano le informazioni mille volte, scrivono solo dopo una giornata di scarpinamenti e di digiuno, quando proprio non ci sono più margini di tempo.

Aveva la passione del mare. Conosceva a menadito i porti italiani, quelli della Toscana in particolare. Aveva progettato un barchino a vela, il Piviere, di cui furono prodotti diversi esemplari, intuendo che gli italiani del post boom avrebbero scoperto le vacanze sul mare. Aveva progettato una barca più grande, di 14 metri. Anticipando i tempi, aveva eliminato la “tuga”, la sovrastruttura sulla coperta che rendeva abitabile la barca, incorporandola tra fiancate più alte,  aumentando lo spazio interno. Oggi fanno tutti così.

Aveva chiamato quella barca, di un impossibile rosso che gli piaceva tanto, “Quoziente intelligenza zero”, consapevole che si trattava di una follia economica per il suo stipendio da inviato della Nazione che rifutava i fuori busta. Nella lettera che il Corriere pubblica, Mancini indica alla moglie di vendere il Quoziente, la sua amata barca, per realizzare un po’ di soldi.

Lo vidi per l’ultima volta all’aeroporto di Roma. Fu un caso. Arrivavo, mentre Mancini, appoggiato a un pilastro, discuteva animatamente con la moglie, Roberta. Lei non voleva che lui partisse, come un presentimento. Lui, sempre dolce, disponibile, ma anche testardo, cercava di tranquillizzarla. Era consapevole di fare una sciocchezza, ma il demonio dell’avventura aveva avuto il sopravvento.Il cronista prudente era stato sopraffatto dalla fantasia dello scrittore.

Poi il funerale nella cattedrale di Grosseto.

Dal complesso di documenti pubblicato dal Corriere, riproduco per intero la lettera di Mancini alla moglie. L’ha scritta mentre vaga nell’oceano sulla zattera, consapevole che la morte è vicina.

Tesoro mio, ho vissuto questi lunghissimi giorni di agonia con il tuo nome, sempre ripetuto e pensato.

Scusa del dolore che ti dò. Ma non è dipeso da errore umano. Stavamo anzi tornando indietro perché la barca aveva sofferto qualche piccola avaria. Eravamo a 4 giorni di vela da Rio de la Plata quando un branco di orche o balene ci ha attaccato affondando il Surprise in 4 minuti. Ci siamo gettati sul battello di gomma e sulla zattera autogonfiabile con pochissima roba da mangiare. Era la mattina di giovedì 19 gennaio e adesso sono 3 settimane che stiamo vagando per l’oceano senza che nessuno abbia potuto e saputo cercarci. Oggi siamo a circa 270 miglia a sud di Rio de la Plata! Ambrogio Fogar è uomo coraggioso, equilibrato, buono. Ci siamo fatti compagnia con grande fermezza d’animo e questo è già qualcosa.

A te Roby mio unico grande bene voglio dire una cosa: vivi la vita, in ogni istante perché non vi è regalo più grande. Io lo capisco appieno, soltanto ora che la sto perdendo. Ma vivila nel dialogo, facendo posto anche agli altri. Non mi ricordare troppo. Sono stati 14 anni belli i nostri, e equilibrati. Dal punto di vista finanziario sto abbastanza tranquillo. Con la liquidazione pagherai la casa poi venderai il Quoziente, poi avrai la pensione. Ho scritto a Sensini che ti aiuterà, rivolgiti a lui con fiducia perché avrai qualche mese duro davanti. Addio mia impareggiabile Roberta che aveva molte più ragioni di quante io non gliene dessi! Chiedo perdono ai tuoi genitori e a tutti gli altri di famiglia.  

Per sempre tuo, Mauro.

L‘introduzione e la lettera di Fogar