De Benedetti vs Scalfari, randellate fra vecchi: 30 anni fa ti diedi 80 miliardi

di Sergio Carli
Pubblicato il 20 Gennaio 2018 - 14:12 OLTRE 6 MESI FA
debenedetti-scalfari

Carlo De Benedetti e Eugenio Scalfari in una vecchia foto Ansa

ROMA – Carlo De Benedetti salvò l’Espresso dal fallimento, questo è vero. Ma non ha regalato 80 miliardi a Eugenio Scalfari. Con quel denaro, più altri 360 miliardi andati a Carlo Caracciolo e ai soci storici dell’Espresso, la Mondadori, di cui De Benedetti era il principale azionista, non di controllo ma “di riferimento”, come si autodefinì, mise assieme un impero editoriale che comprendeva Mondadori, Espresso, Repubblica, Quotidiani locali. Repubblica da sola, forse con un po’ di entusiasmo era stata valutata fra 800 e mille miliardi. Come molti ricordano, fu una breve stagione.

La grande visione strategica, industriale e editoriale, di De Benedetti, si incagliò nel terrore di Andreotti e di Craxi, che non volevano una simile potenza di fuoco mediatico a disposizione del Pci. Lo stesso terrore, da parte sempre di Andreotti, questa volta per l’asse Berlusconi-Craxi, restituì a De Benedetti la parte migliore, Repubblica e i quotidiani locali. È passato un quarto di secolo. I titani di quei tempi, a parte Caracciolo che si è trasferito nel mondo dei più nel 2008, sono degli arzilli vecchietti lacerati da rancori vecchi e insanabili, da tempo noti o emergenti in queste concitate giornate.

Li divide il destino. Berlusconi assurto a simbolo della poca memoria degli italiani e a imperituro monumento della sua astuzia. Col 15% dei voti, mettendo assieme i post comunisti della Lega e i post fascisti della Meloni, si appresta a ridare le carte della politica italiana. Scalfari ha superato la soglia dei 90 anni, veleggia verso i 100, ha reso il diabete una malattia inoffensiva, resta il più lucido analista politico. Resta un gigante del giornalismo. Anche Michelangelo, posato lo scalpello, era uno come noi. Non pretendiamo troppo dal più grande giornalista dell’ultimo secolo. De Benedetti è stritolato dal meccanismo di una tragedia greca a dimensione familiare, senza sangue ma con non meno odio.

Berlusconi ha sostituito Beppe Grillo a Stalin. De Benedetti, estromesso dai figli che dovrebbero ogni giorno agitare flabelli e accendere ceri davanti al suo scranno, ogni tanto straparla e così fa Scalfari. Avrebbero fatto meglio a tacere. Hanno messo in piazza una volgarità di comportamento e di linguaggio che non si addice alla loro unghia, alla loro domestica. Hanno messo in luce la pochezza della nuova generazione di giornalisti. Questo forse è l’effetto non voluto ma che dà più amarezza.

Li accomuna la voce impastata che sa di dentiera e di corde vocali consunte. Il risultato, delle voci e delle parole, è patetico e doloroso. Cliccate qui per sentire Scalfari, De Benedetti, Berlusconi.

Sarebbe meglio voltar pagina. A questo punto, però, qualche precisazione può aiutare a chiudere la rievocazione.

La vicenda del salvataggio e della quota di Scalfari è ben raccontata da Giuseppe Turani in questa ricostruzione quasi storica.

Sul salvataggio dell’Espresso dal fallimento, De Benedetti ha aggiunto su Repubblica altri dettagli:

“A metà degli anni ’80 [in realtà siamo alla fine deglianni ’70, quando Caracciolo si avventurò nell’acquisto della concessionaria di pubblicità Manzoni], il Gruppo si trovava in una situazione tecnica di fallimento e l’avvocato Vittorio Ripa di Meana, legale e consigliere di amministrazione del Gruppo, si rivolse al dottor Guido Roberto Vitale, allora amministratore delegato di Euromobiliare, per cercare una soluzione che ormai pareva veramente problematica.

“Il dottor Vitale, con un suo collaboratore, si inventò uno strumento molto in disuso nella finanza italiana e cioè le fedi di investimento convertibili e mi propose di sottoscriverne 5 miliardi, cosa che io feci.

“Successivamente convertii le fedi in azioni del Gruppo Espresso, diventandone azionista al 15% e entrai nel Consiglio di Amministrazione, del quale per trentacinque anni sono stato membro”.

Tradotto in latino. Con 5 miliardi Carlo De Benedetti si assicurò un piede nella porta che nel giro di pochi anni, dopo tormentate vicende e qualche significativo esborso, lo avrebbe portato al ruolo di azionista di controllo e poi presidente del più piccolo ma più redditizio dei primi 3 gruppi editoriali italiani. Infatti non è vero che De Benedetti nell’Espresso ci abbia rimesso dei soldi. Ci furono alcuni anni di perdite, subito dopo la spartizione da Berlusconi. Pesavano gli oneri finanziari per il riacquisto di Repubblica e dei quotidiani locali dalla Mondadori e gli effetti di una recessione indotta da cause esogene al gruppo. Poi sono stati 10 anni almeno di bilanci quasi trionfali

Anno          1996    1997    1998   1999   2000   2001      2002    2003    2004   2005   2006    2007

Utile netto 29,4    48,4     62,4     79       129         1            46         68          88      116        104       96

I risultati attorno al 2000 sono complessi per l’effetto delle perdite di Kataweb, iniziativa fortemente voluta da De Benedetti che non arrivò alla Borsa perché preferirono affidarsi agli americani di Goldman Sachs anziché ai più radicati italiani di Mediobanca. Senza Kataweb molti dirigenti avrebbero perso il ricco gruzzolo delle stock option ma gli azionisti dell’Espresso, fosse stato fatto come Caltagirone, sarebbero stati più felici.

Che poi alle tasche di De Benedetti di tutti quei profitti sia arrivato solo poco più del magico numero blblico della decima parte non dipende da Scalfari ma dal fatto che ieri De Benedetti Carlo oggi i suoi figli di soldi veri in Repubblica ne hanno messo relativamente pochi: controllano metà di Cofide, che controlla metà della Cir che controllava metà, oggi il 40%, del fu Gruppo Espresso oggi Gedi.

Purtroppo non di guerre stellari stiamo parlando ma di patetiche risse tra vecchi. In attesa che John Elkann, nipote di Gianni Agnelli (nonno) e di Carlo Caracciolo (prozio), diventi il padrone di tutto.

Lo stesso schema si applica all’acquisto dell’Espresso da parte della Mondadori, nel 1989. La Mondadori era controllata da una scatola, la Ame Finanziaria, figlia del sempreverde genio di Mediobanca. La Mondadori era stata portata sull’orlo del fallimento dalle perdite di Rete4. Ame Finanziaria aveva il 50% di Mondadori. Tra i suoi principali azionisti, blindati da patto di sindacato, gli eredi delle figlie del fondatore Arnoldo Mondadori, Mimma e Leonardo, Cristina e Luca. E anche il principale colpevole della crisi di Rete4, Silvio Berlusconi, che infatti se la pappò. C’è poco da dire. Lui era stato più bravo, geniale, spregiudicato. Il business non è roba da oratorio, è giungla.

Di Ame Finanziaria De Benedetti deteneva una quota di poco inferiore a un terzo. Questo, in base al sistema della catena di controllo, vuol dire che di suo di quegli 80 miliardi che ora ingiustamente rinfaccia a Scalfari, comunque ne pianse solo poco più di 3 miliardi. La cifra è risultato di una serie di divisioni: 80 diviso 2 fa 40 (la quota AmeF. 40 diviso 3 fa 13 (la quota Cir), 13 diviso 2 fa 6,5 (la quota Cofide), 6,5 diviso 2 fa 3,3 (la quota finale di competenza della persona fisica).

Fu allora, nel 1989, che Scalfari monetizzò i frutti del suo genio, non uno o due anni dopo ai tempi della guerra di Segrate. E la sua partecipazione non era tanto modesta, perché portava al controllo dell’Espresso e di Repubblica. E il prezzo corrispondeva al valore di Borsa in quel momento. Non è pensabile che sia stato manipolato per portare la quota di Scalfari a quel livello. Era per Repubblica un momento magico, era arrivata a vendere più di 800 mila copie. La crisi era appena iniziata ma non conveniva insistere. Al Governo c’era Carlo Azeglio Ciampi, amico di Scalfari e di De Benedetti. Repubblica, nata anti, diventò quasi governativa: da un mese all’altro perse 100 mila copie. Ma Ciampi aggiudicò a Omnitel, controllata da Olivetti, controllata da De Benedetti, la licenza dei telefonini

Questa è una storia nella storia, che Giovanni Valentini ha raccontato nel suo intrigante e bel libro. Valentini, che è stato direttore dell’Espresso per quasi dieci anni, resse il timone del settimanale durante l’anni di occupazione berlusconiana, per poi essere licenziato in tronco, il giorno dopo la spartizione. Fu poi vice direttore di Repubblica, perché Scalfari confidava nelle sue capacità professionali e morali. Valentini, voltando pagina e cancellando l’affronto subito, ebbe poi un ruolo chiave nella conferma della licenza anche da parte del Governo Berlusconi, Come racconta nel suo libro, l’amicizia con Giuseppe Tatarella, mente di An e ministro delle Poste, pugliese come Valentini, fu funzionale alla salvezza dell’Olivettie di De Benedetti.