YOUTUBE Auschwitz, anello e collana trovati in una tazza

di Elisa D'Alto
Pubblicato il 20 Maggio 2016 - 13:53 OLTRE 6 MESI FA
YOUTUBE Auschwitz, anello e collana trovati in una tazza

YOUTUBE Auschwitz, anello e collana trovati in una tazza

AUSCHWITZ – Una tazza di latta con il doppio fondo. E sotto una collana e un anello, avvolti in piccoli pezzi di stoffa. Monili preziosi, ricordo di chissà chi, sopravvissuti ai nazisti, al Tempo, alla Storia, e finiti per puro caso tra le mani dei dipendenti del museo Auschwitz. Una normale operazione di pulizia degli oggetti appartenuti ai deportati ha permesso, 70 anni più tardi, di scoprire l’ingegnoso mezzo usato da uno sconosciuto per sottrarre ai suoi aguzzini quei piccoli ricordi.

Una pagina, minuscola se vogliamo, che intenerisce e fa pensare. Anzitutto al proprietario o proprietaria di quei gioielli. Un deportato, prelevato a forza da chissà quale ghetto d’Europa, che però sapeva bene dove andava e che una volta finito in quel campo gli avrebbero tolto tutto, anche i denti d’oro, gli occhiali, persino le scarpe. E come potevano resistere, alle ruberie dei nazisti, un anello e una collana d’oro? Già. E però viene da chiedersi perché. Perché quell’ostinato e ingegnoso attaccamento a quegli oggetti, se si sa che si sta per andare a morire?

E qui si può solo entrare nel campo delle ipotesi. Per dispetto, ad esempio. Ebrei, zingari, “diversi” hanno sacrificato milioni di vite alla violenza del nazismo e del razzismo, forse quella vittima ignota non ha voluto consegnare anche quelle piccole cose preziose, aveva sacrificato la sua pace, la sua casa, i suoi cari e i suoi vicini, quelle piccole però cose no, le voleva con sé come traccia di sé.

O per affetto. Perché quel bracciale e quell’anello sono la triste conferma che gli oggetti materiali, anche i più stupidi, hanno più possibilità di sopravvivere a una persona in carne ossa. E spesso gli oggetti sono quelle cose alle quali ci attacchiamo per colmare un’assenza. Forse quell’anello apparteneva alla madre dell’ignoto deportato (la manifattura è degli anni ’20-’30), era un ricordo e per chi ha perso tutto la memoria è sacra.

Qualunque fossero i motivi, quel fantasma di un’epoca passata ce l’ha fatta: quell’anello acciaccato e senza la pietra centrale e quella collana sono qui, tra noi, testimoni inerti di un legame mai spezzato tra gli oggetti e il loro ultimo proprietario e tra questo e i suoi affetti, forse una madre, forse una moglie, una sorella. E’ questa umanità, preziosa, che ci appartiene in quanto esseri umani, anche se di un’altra epoca, che ci parla e che abbiamo il dovere di conservare. Quei gioielli sono in buone mani:

“Un simbolo di speranza” racconta il direttore del museo Dr Piotr Cywinski. E spiega: “E’ il segno che gli ebrei deportati da un lato erano consapevoli di venir “rapinati” durante la deportazione, ma dall’altro dimostra che le famiglie ebree nutrivano un raggio di speranza che questi oggetti erano necessari alla loro esistenza”: che si trattasse di un pegno di amore o di un regalo, chi ha nascosto l’anello e la collana voleva lasciare un segno di sé nella speranza forse che, una volta ritrovati, potessero essere riconsegnati in qualche modo alla famiglia. “La possibilità di trovare i discendenti della proprietaria sono minimi” spiegano dal museo perché “non ci sono tracce sugli oggetti che permettano di identificarli”. L’anello e la collana dunque saranno aggiunti agli altri monili presenti nel museo (solo tazze, piatti e pentole sono 12.000) come traccia “viva” del ricordo di oltre un milione di ebrei e prigionieri di altre nazionalità che furono uccisi tra il 1940 e il 1945 nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau.