Mostra del Cinema di Venezia: “Il giovane favoloso” e “Olive Kitteridge”, la rassegna stampa

di Redazione Blitz
Pubblicato il 2 Settembre 2014 - 10:28 OLTRE 6 MESI FA
Una scena del "Giovane favoloso"

Una scena del “Giovane favoloso”

VENEZIA – Al Festival di Venezia sbarca la pellicola su Giacomo Leopardi “Il giovane favoloso”, il film diretto da Mario Martone e interpretato da Elio Germano. Film accolto e celebrato con dieci minuti di applausi.

È commosso, Mario Martone, mentre il Lido s’inchina con dieci minuti di applausi a Il giovane favoloso – scrive Gloria Satta del Messaggero – terzo e ultimo titolo italiano in concorso. «Libertà, ribellione, amore per la vita, voglia di uscire dalle gabbie delle convenzioni sociali, culturali, politiche: è questa, ancora oggi, la lezione di Leopardi», dice il regista napoletano.(…) La modernità di Leopardi? Per Martone consiste nella sua ribellione alle costrizioni che la vita ci mette davanti: «Tutti noi, in nome dell’ipocrisia borghese, finiamo per venire a patti con queste costrizioni ma lui si rifiutò sempre di indossare una maschera. Preferì essere se stesso e far vivere la sua anima. L’infelicità di cui tanto si parla rappresenta la premessa alla sua spinta verso la vita». Per vedere il film (che sarà nelle sale il 16 ottobre con 01), conclude il regista, «non è necessario aver letto i versi del poeta, servono solo l’anima e il cuore».E aggiunge: «A pensarci bene tutto il mio cinema, fin dagli anni Ottanta, è stato un lungo viaggio che mi ha condotto a Leopardi».

“Vita di un uomo che non ebbe quasi una vita, ma amava il mondo con trasporto totale – scrive Fabio Ferzetti sempre sul Messaggero – Ritratto di un’anima vasta e luminosa chiusa in un corpo piccolo e ingrato. Autobiografia interiore di uno dei più grandi poeti del suo tempo, malgrado il suo tempo”.

“A Leopardi – continua Fabio Ferzetti –  tocca in sorte la Restaurazione e un’Italia ancora più piccola, meschina, chiusa in consorterie ostili, incapace di intuire la modernità di quel poeta. Che il film insegue in tre movimenti distinti e un “poco ineguali, ma animati dalla stessa tensione verso la rivolta e l’affermazione di una personalità unica. Ed ecco l’infanzia a Recanati, con le gioie insieme fisiche e intellettuali dello studio che crescendo diventano noia e smania di fuga dalle costrizioni familiari. Ecco il rapporto ambiguo col padre (Massimo Popolizio), l’amicizia travolgente con Giordani (Valerio Binasco) e più tardi con Ranieri (Michele Riondino), tutti e due così vicini e insieme incapaci di capirlo fino in fondo. Ecco la fuga a Firenze e poi a Roma, di delusione in delusione, nei salotti letterari come nei camerini delle attrici, mentre il governo boccia i suoi progetti, gli scrittori gli rimproverano «la solita insopportabile malinconia», Giacomo scrive le Operette morali (ma quella Natura matrigna col volto tetro della madre è una sottolineatura eccessiva) e infine approda a Napoli, dove la vitalità plebea di quei «Lazzaroni e Pulcinelli» dà momentaneo conforto al fisico ormai stremato del poeta. E Martone dà il meglio del suo cinema materico e onirico, fino al magnifico finale della Ginestra, in cui il mondo fisico e mondo interiore finalmente si sommano e si confondono, un po’ come le immagini del regista e i versi di Leopardi. Mentre Elio Germano tocca il culmine di un’interpretazione sofferta e insieme straniata, intellettuale e misuratissima, da cui il film trae buona parte della sua forza”.

“Mario Martone ha centrato l’obiettivo” scrive Paolo D’Agostini di Repubblica:

Il Leopardi cesellato da Elio Germano (sfida titanica quella di evitare i trappoloni della caricatura del poeta storpio e sfigato) è un uomo che sa di essere dotato di qualità speciali, e non disdegna fame di affermazione. Ed è anche, e soprattutto a dispetto delle spietate limitazioni impostegli dalla natura — la banale spiegazione del suo disperato pessimismo, quello che la società letteraria, dapprima osannante poi sempre più isolandolo, gli rimprovera — un vulcano di vitalità anche nei feroci sarcasmi o nelle ghiottonerie o nell’innamoramento per Rossini. Un fuoco che arde senza posa in cerca di aria libera (“ho bisogno di entusiasmo fuoco vita”), pronto a cogliere e ad auspicare ogni segnale di rottura (“il vero consiste nel dubbio”) di vecchi equilibri, tanto artistici che in senso lato politici e sociali. La tempra dei rari grandi solitari profeti, per nulla compiaciuta di infelicità e tetraggine, espressa senza retorica né magniloquenza. Un film “pesante”? Può darsi, ma come prezioso antidoto a una leggerezza drogata, pigra e irresponsabile. E comunque fonte di grandi e forti emozioni.

“È un Kurt Cobain dell’800 che lottava contro l’ipocrisia” dice Martone, inetrvistato da Maria Pia Fusco di Repubblica:

Mario Martone non è stato uno dei tanti adolescenti che si identificavano nel male di vivere di Giacomo Leopardi, perché «avendo cominciato presto a lavorare con il teatro – ero ancora a scuola – è come se le età della vita si fossero scombussolate. L’adolescenza l’ho scoperta dopo, e forse allora è venuto il momento di Leopardi», dice l’autore di Il giovane favoloso . «Lo amiamo perché sentiamo che la sua sofferenza è il disagio di sentirsi scomodi nell’esistenza. Quello che ha scritto lo viveva tutto su di sé, senza la protezione dell’ipocrisia. “Io non capisco come tutti possano indossare la stessa maschera”, scriveva nelle Operette morali.
Il tema della ribellione e della diversità lo rende vicino a noi. Sul set lo aveva definito un Kurt Cobain, il leader dei Nirvana, dell’800… A pensarci mi sembra di aver fatto solo film leopardiani».
Il percorso verso Il giovane favoloso parte nel 2010 proprio dalla Mostra. «Con mia moglie, Ippolita di Majo, pensiamo di fare la drammaturgia di “Operette morali” e andiamo a Recanati, un luogo ancora oggi molto evocativo ed essendo di Napoli, ho “ visto” il viaggio di Leopardi, il confronto tra Recanati e la forza di una città come Napoli. Poi abbiamo trovato l’entusiasmo del produttore Carlo Degli Esposti e tutto è cominciato. È un film che fa parte del grande cantiere ottocentesco dei miei ultimi dieci anni, dallo spettacolo su “Leopardi a Napoli” di Enzo Moscato, l’Ottocento di Rossini, Noi credevamo. Il giovane favoloso è il compimento di tutto».

Sempre lunedì 1 settembre è stato il turno anche di Frances McDormand, protagonista e produttrice della miniserie Hbo Olive Kitteridge ( in Italia a gennaio su Sky Cinema). Diretto da Lisa Cholodenko, ( I ragazzi stanno bene).

L’intervista a Repubblica:

Giacca, camicia pantaloni neri, trucco invisibile, unico vezzo un paio di bellissimi orecchini a goccia. Al Lido piove a dirotto, lei è felice: «Adoro i festival, mi sembrano il luogo perfetto per profonde chiacchierate sul cinema ». Cinquantasette anni e un Oscar per la poliziotta incinta di Fargo, l’attrice e musa dei Coen stavolta conquista la Mostra di Venezia con un prodotto televisivo, fuori concorso. E’ protagonista e produttrice della miniserie Hbo Olive Kitteridge ( in Italia a gennaio su Sky Cinema). Diretto da Lisa Cholodenko, ( I ragazzi stanno bene) il film è un affresco corale, quattro ore per raccontare venticinque anni, ambientato in una cittadina di mare americana. Umorismo in puro stile Coen, personaggi forti e colpi di scena che ruotano intorno alla rude professoressa di matematica, depressa e vitalissima, interpretata da Frances McDormand, «una donna che nessuno può ignorare e che non tutti amano».
Signora McDormand lei ha comprato i diritti del romanzo di Elizabeth Strout prima ancora che vincesse il Pulitzer.
«Mi ha folgorato. Io non amo progetti a lungo termine, al cinema. E non potrei lavorare cinque anni alla stessa serie televisiva. Questa storia si prestava ad essere raccontata con la giusta lunghezza, regalando la necessaria profondità al personaggio. E’ stata una preparazione lunga. A Olive Kitteridge ho lavorato come attrice e produttrice, partecipando a ogni scelta, da quella della regista ai mobili che doveva avere in cucina il mio personaggio».
Finalmente è la protagonista assoluta.
«Ho 57 anni. Dai tempi di Blood simple, ho costruito la mia carriera con ruoli da comprimaria, facendo da spalla al protagonista maschile. Non è facile trovare ruoli forti da donna al cinema, e quando lo sono, penso al Salt di Angelina Jolie, sono semplicemente ruoli da uomo fatti interpretare a una donna. La mia Olive è un personaggio forte, stoico, non necessariamente empatico. Ma le donne ci si ritrovano e io volevo che fosse così».
In molti la paragonano alla poliziotta incinta di Fargo.
«Fu una sorpresa per tutti, sul set di Fargo puntavamo tutti sul personaggio di Steve Buscemi. Nella mia poliziotta incinta forse c’era la verità di quel che succede a molte donne nei posti di lavoro».
Il film racconta anche la bellezza di un matrimonio longevo.
«Spero che i giovani ci possano credere che il matrimonio possa diventare una sfida lunga una vita. Sono sposata da 32 anni, il mio collega e coprotagonista Richard Jenkins da 45, questo film è fatto da persone che credono nel matrimonio».
Mai pensato di debuttare nella regia?
«Un regista in famiglia basta e avanza. Mi basta saper fare la produttrice e sono una buona massaia. Sono brava a gestire traslochi, tenere l’agenda sociale di mio marito, trovare scuole per mio figlio, arredare case, e sono bravissima a stirare. Non mi sembra poco».
Che ricordi ha di This must be the place con Paolo Sorrentino?
«Lo adoro. E’ un bravo regista e mi ha colpito al primo incontro perché conosceva tutta la mia filmografia. Mi piacerebbe lavorare all’estero, ma c’è il problema della lingua. Dovrei trovare uno come Fellini, sui cui set gli attori invece che le parole dicevano i numeri».