Claudio Aprea, 80 anni, sopravvissuto alla meningite: “Io vivo grazie ai medici”

di redazione Blitz
Pubblicato il 21 Giugno 2017 - 17:15 OLTRE 6 MESI FA
Claudio Aprea, 80 anni, sopravvissuto alla meningite: "Io vivo grazie ai medici"

Claudio Aprea, 80 anni, sopravvissuto alla meningite: “Io vivo grazie ai medici”

LIVORNO – “Sono andato a dormire con un gran mal di testa e mi sono svegliato dopo 9 giorni di coma in ospedale”. Così Claudio Aprea, 80 anni, sopravvissuto alla meningite, racconta la sua terrificante esperienza. E’ infinitamente grato ai medici dell’ospedale di Livorno che hanno saputo strapparlo alla morte e si sente quasi un miracolato.

Gli hanno diagnosticato una meningite da pneumococco, dunque non contagiosa, ma comunque potenzialmente letale specie in soggetti anziani.

Il giornalista Giulio Corsi del quotidiano Il Tirreno ha raccolto la sua testimonianza:

 

“Ho scoperto tutto quando ormai stavo bene – racconta Aprea  L’ultima cosa che ricordavo, quando mi sono svegliato in un letto della rianimazione era quel mal di testa con cui mi ero addormentato. Nel frattempo era successo che al pronto soccorso mi avevano diagnosticato una meningite batterica da pneumococco, e mi avevano trasferito d’urgenza in rianimazione. Lì, dopo brevi consultazioni, era stato deciso dal primario, Paolo Roncucci, di mettermi in una situazione di coma farmacologico indotto”.

Un coma durato 8 giorni. “Dopo i quali per altri 7 giorni sono rimasto in rianimazione, per poi passare al 9° padiglione, quello delle malattie infettive, dove il primario Spartaco Sani si è preso cura di me per altre due settimane prima di mandarmi a casa. Guarito”.

Aprea ha deciso di rendere pubblico il suo dramma per un motivo preciso: ringraziare gli staff di pronto soccorso, rianimazione e 9° padiglione: “Lavorando con una perfetta sincronia sono stati fantastici – dice – Un ringraziamento particolare voglio farlo al dottor Roncucci e a tutto il suo staff, perché oltre alla straordinaria professionalità hanno anche dimostrato una enorme umanità, al punto che ogni volta che i miei familiari lasciavano l’ospedale per rientrare a casa, mentre io ero in coma, sempre lo hanno fatto avendo l’impressione sicura, che io rimanessi in mani molto più che buone”.