Gioacchino Murat, a Pizzo Calabro i resti del francese che voleva fare l’Italia (e fu ucciso dagli italiani)

di Redazione Blitz
Pubblicato il 25 Aprile 2015 - 07:09 OLTRE 6 MESI FA
Gioacchino Murat, a Pizzo Calabro i resti del francese che voleva fare l'Italia (e fu ucciso dagli italiani)

Murat alla Battaglia di Aboukir (Antoine Jean Gros, 1799)

PIZZO CALABRO, VIBO VALENTIA – Nella cripta del Duomo di Pizzo Calabro sono stati trovati dei resti umani che potrebbero essere quelli di Gioacchino Murat. Re di Napoli dal 1808 al 1815, esattamente 200 anni fa fu catturato e ucciso nella città tirrenica della Calabria. Per arrivare alla cripta e quindi alle ossa bisognerà rimuovere una spessa lastra di marmo, parte del pavimento della chiesa di San Giorgio.

Fotografata la cassa che si ritiene contenga i resti di Murat, bisognerà prelevare dei campioni biologici. Solo i test del Dna diranno se quella è la tomba del re francese messo a morte due secoli fa. Spiega il sito Strill.it che la cassa con le ossa di Murat fu scoperta nel 2011 con una telecamera calata con una sonda per esplorare i sotterranei del Duomo di Pizzo:

In quell’occasione, le immagini mostrarono numerosissimi resti di corpi umani, tumulati nel corso dei secoli, a conferma della consuetudine di seppellire i defunti sotto le chiese. Tra queste spoglie, fu individuata una cassa che corrisponde alla descrizione che alcune cronache dell’epoca fanno dell’ultimo viaggio di Murat. In particolare, dopo la fucilazione, il corpo di Murat venne composto in una cassa di abete che, durante il trasporto verso il duomo, cadde sul selciato, rompendosi. Per ovviare all’incidente, fu effettuata una riparazione di fortuna, avvolgendo la cassa con una lunga corda al fine di tenerla insieme. Ed è proprio su un feretro legato da una corda che si è quindi concentrata l’attenzione dei ricercatori. Le probabilità che contenga le spoglie mortali di Gioacchino sono molto alte, ma il dilemma potrà essere risolto soltanto calandosi nella cripta, analizzando i resti ed effettuando un prelievo per il test del Dna.

Ma la scoperta calabrese riporta d’attualità, complice il bicentenario, la figura di Murat in quel 1815 in cui austriaci e borbonici si spartirono il territorio dell’Italia ancora divisa dopo la caduta e la morte di Napoleone. Scrive un lettore del Corriere della Sera a Sergio Romano:

Dal 28 marzo al 13 ottobre, Rimini, Occhiobello, Cesenatico, Macerata, Tolentino, Pollenza, Castel di Sangro e Pizzo Calabro ricorderanno, con convegni storici e rievocazioni in costume, le battaglie e gli avvenimenti della guerra austro-napoletana del 1815. Secondo alcuni, l’impresa tentata da Gioacchino Murat, durata due mesi e fallita, di unire gli italiani sotto le sue insegne promettendo loro l’indipendenza mediante il Proclama di Rimini fu il primo atto del Risorgimento (che suscitò l’entusiasmo di Manzoni e poi di Carducci). Per altri, fu solo il tentativo disperato di porre le grandi potenze di fronte al fatto compiuto di un ingrandimento territoriale per conservare il Regno di Napoli che Napoleone gli aveva dato, e che le potenze vincitrici nel Congresso di Vienna non intendevano confermargli. Qual è la sua opinione?
Maurizio Romanato

Romano nella sua risposta spiega come l’Italia non era ancora pronta per un discorso unitario, non era ancora matura per lottare per la propria indipendenza e imporsi come nazione. E il problema non erano la Chiesa, i Borbone o gli Asburgo, ma gli stessi “italiani”. Come quei calabresi che quando videro Murat, sbarcato all’estremo Sud con l’idea di risalire lo Stivale per fare quello che avrebbe compiuto Garibaldi 35 anni dopo, lo linciarono e lo misero a morte perché aveva vietato il contrabbando del sale.

Caro Romanato,
Dopo Waterloo, la dissoluzione dell’Impero napoleonico e la partenza del suo fondatore per Sant’Elena, cominciò nella penisola italiana una frenetica caccia all’eredità. Chi aveva il potere cercò di conservarlo, chi non lo aveva cercò di conquistarlo. Direttamente o indirettamente, la grande esperienza napoleonica aveva contribuito alla diffusione nelle masse popolari del concetto di nazione. Era accaduto in Spagna nel 1812 e in Germania nel 1813. Perché non sarebbe dovuto accadere anche in Italia? Perché gli italiani non avrebbero colto l’occasione per rivendicare il loro diritto all’unità nazionale? Nella storia d’Italia dal 1796 a oggi ( La Forza del destino , Laterza 2008), Christopher Duggan ricorda che nel 1814, risalendo la penisola, il comandante delle truppe inglesi in Italia Lord Bentinck aveva esortato gli italiani a prendere le armi per dare un segno della loro esistenza e delle loro ambizioni. In Lombardia, alcuni nobili liberali, desiderosi di conservare il napoleonico Regno d’Italia, erano disposti ad accettare che sul trono continuasse a sedere Eugenio Beauharnais.
Il caso più spettacolare fu quello di Gioacchino Murat, cognato di Napoleone e re di Napoli. Alla fine di marzo del 1815, quando apprese che l’imperatore era tornato in Francia dall’Elba, Murat lanciò da Rimini il proclama a cui lei, caro Romanato, allude nella sua lettera: un testo che comincia con le parole «L’ora è venuta che debbono compiersi gli alti destini d’Italia».

Il re maresciallo cominciò a scendere lungo la penisola per riprendere possesso del suo regno napoletano, ma fu fermato dagli austriaci a Tolentino. Non rinunciò tuttavia al suo disegno e tornò in scena in ottobre sbarcando in Calabria, sulla costa di Pizzo Calabro, con 250 compagni. Sperava di essere accolto entusiasticamente, ma s’imbatté nell’ostilità dei suoi vecchi sudditi e venne passato per le armi dalle truppe borboniche il 13 ottobre 1815. Di quell’avventura esiste una cronaca scovata da Pier Luigi Vercesi per un brillante libro su giornali e giornalisti italiani dal 1815 agli anni Sessanta del secolo scorso ( Ne ammazza più la penna. Storie d’Italia vissute nelle redazioni dei giornali , Sellerio 2014). La cronaca apparve sul Messaggiere modenese del 25 ottobre e riferisce tra l’altro questa testimonianza del canonico di Pizzo: «Fischi, sputi in faccia, strappato di capelli, di barba e di mustacchio, colpi di fucile, bastoni, schiaffi, anche di donnicciole, e ridotto in modo che la pietà della gente pulita accorse per ricoprirlo con nuove vesti e tele perché lasciato lacere e mezzo ignudo». Sembra che in Calabria non fosse amato perché aveva nuociuto al traffico della costa con le sue leggi contro il contrabbando del sale. In queste descrizioni dell’Italia postnapoleonica vi sono certamente i primi segnali del Risorgimento. Ma vi è anche l’amara constatazione che i primi nemici dell’unità nazionale italiana furono per molto tempo gli italiani.