Giornalista di Rovigo denuncia: “Sequestrato dalla polizia per una notte”

di Redazione Blitz
Pubblicato il 6 Agosto 2014 - 15:44| Aggiornato il 6 Marzo 2015 OLTRE 6 MESI FA

ROVIGO – Francesco Saccardin, giornalista di Rovigo, ha denunciato la polizia per averlo “sequestrato per una notte“. Saccardin, 38 anni, collaboratore di Rovigo Oggi, per il quale si occupa di cronaca nera, la sera di sabato 19 luglio ha preso il treno per andare alla festa del Redentore di Venezia.

Racconta Saccardin che alle due di notte lui e i suoi amici erano sul saliti sul treno del ritorno, in partenza dalla stazione di Venezia Santa Lucia. C’è un sacco di gente sui binari e la Polizia Ferroviaria fa fatica a contenerla. Francesco, dal predellino del vagone, scatta una foto alla scena. Un agente non gradisce e gli intima di non fotografare. Lui allora rientra nel treno e si siede con gli amici. Poi la situazione degenera, secondo la versione che Saccardin ha fornito ai carabinieri e poi a Rovigo Oggi e a Francesca Sironi de L’Espresso:

«Pochi secondi dopo il poliziotto è sul vagone, a un centimetro da me. Mi intima di scendere. Chiedo perché, rispondo, insiste, inizia ad alzare la voce, lo seguo». Succede che un minuto dopo è sul binario, il braccio sinistro ritorto dietro la schiena, circondato dopo poco da altri due agenti. Agli amici viene impedito di scendere dal vagone. Il treno parte. E Francesco resta solo con la polizia nella stazione completamente svuotata. «E lì sono iniziati gli insulti», racconta: «”Figlio di puttana”, “pezzo di merda”, “un braccio ci mettiamo poco a rompertelo”, “tanto al lavoro domani non ci vai”».

A strattoni i tre agenti lo trascinano fino al posto di polizia della stazione. Lui cerca di spiegarsi, inizia a dire: «Sono un giornalista, lasciatemi stare». «Quando sono entrato ho iniziato a spaventarmi veramente», racconta: «Mi hanno fatto togliere le scarpe, buttato a terra il cellulare, il telefono, il tutto senza un verbale di perquisizione, niente. Ero in mano loro». Sempre stringendoli il braccio dietro la schiena. «Faceva male. Continuavano a dirmi: “stai tranquillo, ci mettiamo un attimo a romperlo”». Gli chiedono di dire scusa. Dice scusa. Ma lo mettono lo stesso in una cella di sicurezza, col piantone alla porta.

«Ho perso la nozione del tempo», continua Francesco: «Ero seduto, senza acqua, nulla, l’unico bicchiere me l’ha portato un agente impietosito alle cinque del mattino». Già, perché su quella sedia, Francesco – braghette corte, maglietta, scarpe da ginnastica, come si conviene per andare a una festa di piazza – resta per più di due ore. «Quando mi hanno convocato per rilasciarmi mi hanno ridato il cellulare: c’erano 40 chiamate senza risposta ed erano le 5 del mattino». Davanti a lui un foglio: «Era la denuncia. Per “ubriachezza manifesta”, quando neanche mi avevano fatto un alcool test, e per “oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale”». Ma lui non firma: «Primo, per l’orario: c’era scritto che mi dimettevano alle 2.30/3. Erano le cinque». E poi per il contenuto: «Ubriaco? Claudicante? Con l’alito pesante? Ero stato tutto il pomeriggio con gli amici, stavo tornando a casa con loro, autonomamente. Sì, è vero, forse non mi ero lavato i denti…». Ma la cosa più grave è la denuncia penale per resistenza: «Quando sono stato tirato giù dal treno, insultato, strattonato, tenuto per ore in cella senza niente di scritto a mio carico».

Il giorno dopo Saccardin va al Pronto Soccorso, dove gli danno 3 giorni di prognosi per “trauma distrattivo”. Prognosi che successivamente viene aumentata a 10 giorni, perché il braccio continua a fare male. Uscito dall’ospedale, Saccardin entra in una caserma dei carabinieri di Rovigo per sporgere denuncia contro la polizia.

Il profilo del giornalista non è certo quello di un nemico della divisa. Addirittura, quando nel 1998 fece il servizio militare, lo fece nel corpo della Celere. E poi seguire la cronaca nera significa avere contatti quotidiani con caserme e questure, tant’è che, racconta Saccardin, prima di ritornare a lavorare, a fare il quotidiano “giro di nera”, si è presentato dai carabinieri e dai poliziotti rodigini per spiegare quello che era successo, per evitare imbarazzi.

L’esperienza di vent’anni fa nella celere non gli ha impedito però di avere paura, paura vera, per quelle ore nella cella di sicurezza, senza scarpe, senza documenti, senza testimoni, senza cellulare: «Sono stato in balia di qualcuno che avrebbe potuto farmi qualsiasi cosa in qualsiasi momento», prova a raccontare, tradendo ancora nella voce l’agitazione di quel momento, nonostante siano passate ormai due settimane: «Ho avuto paura sì».

Tutto questo è successo a lui. Che è un giornalista professionista – il presidente dell’Ordine del Veneto avrebbe già detto che si costituirà parte civile nel processo – che ha conosciuto per esperienza “l’altra parte”, che non è “un rompiballe” come dice lui, che ha continuato a dire chi era, a chiedere ragioni, a provare a divincolarsi, ma non essendo “grosso”, come spiega, non ha potuto fare molto, che stava tornando a casa da una festa con gli amici. «In cella ha avuto modo di pensare ad Aldrovandi e Cucchi», scrivono i suoi colleghi su Rovigo Oggi. «Andrò avanti in questa storia», promette lui: «Per tutti quelli a cui potrebbe succedere. E andare peggio di come è andata a me».