Lea Garofalo “bruciata fino alla cenere”: Carmine Venturino racconta omicidio

Pubblicato il 20 Marzo 2013 - 11:04 OLTRE 6 MESI FA
Lea Garofalo “bruciata fino alla cenere”: Carmine Venturino racconta omicidio (Foto LaPresse)

MILANO – Lea Garofalo non fu sciolta nell’acido, ma bruciata “finché rimase solo cenere”. La donna fu uccisa dall’ex marito Carlo Cosco, legato ai clan della ‘ndrangheta. Uccisa con un colpo di pistola e bruciata, questo hanno confermato i resti umani trovati lo scorso novembre. E questo ha confermato anche la testimonianza di Carmine Venturino, ex fidanzato della figlia della Garofalo, che ha deciso di raccontare quanto vide, riporta Repubblica.

Il corpo di Lea Garofalo, pentita pronta a testimoniare contro l’ex marito, fu bruciato in un fusto di metallo “finché non era rimasto più nulla, solo le braci”. Venturino, 26 anni e condannato a 6 ergastoli in primo grado, racconta cosa accadde la notte del 24 novembre 2009. Venturino è l’ex fidanzato di Denise, la figlia di Lea, per cui la donna cercava di cambiare vita.

Ai pm il pentito, difeso dai legali Ilaria Ramoni e Vincenza Rando, scrive della morta della Garofalo, riporta Repubblica:

Lea «fu uccisa materialmente da Carlo e Vito Cosco, fu strangolata dopo che Carlo si incontrò con lei all’Arco della Pace e con una scusa la portò in un appartamento». «La mattina dopo hanno portato il cadavere nel terreno di San Fruttuoso, a Monza. Qui, già dal 25, è iniziata la distruzione del cadavere, che non è stato sciolto nell’acido, ma carbonizzato fino a dissolverlo completamente»”.

Ma quando Venturino entrò nell’appartamento la Garofalo era già morta:

“«Abbiamo acceso la luce. Il corpo era disteso per terra nel salotto. Era a faccia in giù, in una pozza di sangue. Il viso aveva grossi lividi. Era stata strangolata, intorno al collo aveva ancora una corda verde, che io riconobbi — dice — come quella che era a casa mia e che serviva a chiudere le tende». […]«Io e Curcio (Rosario, altro condannato, ndr.) abbiamo messo il corpo in uno scatolone e sigillato tutto con il nastro adesivo». Lea finisce in un box, poi a San Fruttuoso. «Carlo mi chiese se avevo la mia pomata — ricorda Venturino — . Aveva il mignolo un po’ tagliato. Disse in dialetto: “Se n’è accorta”».

Poi i dettagli di come si sono liberati del corpo:

“«Abbiamo preso un grosso fusto di metallo, di quelli alti dove si tiene il petrolio. Abbiamo messo il cadavere dentro spingendo il corpo in modo che non uscisse fuori, a testa in giù, dal bordo si intravedevano le scarpe. Abbiamo versato benzina e dato fuoco. A un certo punto Curcio mi ha detto che forse non bruciava perché non c’era abbastanza aria dentro, e allora con un piccone ho fatto dei buchi al fusto. Anche dopo però il cadavere si consumava lentamente»”.

Poi Venturino va via, ma quando torna, riporta Repubblica, vede il corpo di Lea fuori dal fusto:

“«Curcio lo aveva messo su dei bancali di legno che bruciavano col corpo. La testa praticamente non c’era più». «C’erano frammenti di ossa, con una pala li abbiamo messi insieme ai pezzi di legno, nel fusto, con altra benzina che avevo portato. Alla fine il corpo era tutto carbonizzato, si vedevano solo le braci»”.

Lo scorso novembre i resti di Lea sono stati trovati e Denise, la figlia, ha riconosciuto la collana ed il bracciale regalati da Cosco all’ex moglie, di cui Carlo aveva riconquistato la fiducia prima di ucciderla:

 Lui aveva mostrato «telefonate e messaggi, aveva detto che era lei a mandarglieli, erano messaggi d’amore. Io ero rimasto stupito, ne mostrò uno in cui Lea scriveva “Ninì voleva un fratellino”. Ninì era Denise»”. 

Infine Venturino spiega che altre condanne a morte sarebbero state decise nel caso che la verità su Lea sarebbe venuta fuori:

“Il pentito ascolta anche i discorsi dei Cosco su altre vendette da compiere. Parla di Carlo che avrebbe saputo dal fratello Vito che «Denise stava parlando coi carabinieri di Petilia Policastro. Carlo — dice Venturino — avrebbe detto al fratello: se fosse stato vero “noi sapevamo quel che dovevamo fare”. Venturino cercò di difendere la fidanzata. «Dissi che non era vero». Il pentito rivela anche che «durante il processo Carlo dice di voler uccidere il figlio di Marisa Garofalo», sorella di Lea, parte civile. «Dobbiamo tutelare chi ha contribuito alla verità — dice l’avvocato Roberto D’Ippolito, che col collega Ettore Traini assiste Marisa. «Ai clan fa paura il coraggio che le donne stanno dimostrando oggi in Calabria. La loro è una rivoluzione su decenni di omertà»”.