Maturità 2013, seconda prova inglese. “Il Grande Gatsby” (traduzione)

di Redazione Blitz
Pubblicato il 20 Giugno 2013 - 11:00 OLTRE 6 MESI FA

maturitaROMA – Al liceo Linguistico per la seconda prova un’analisi in inglese sul“Grande Gatsby” e sugli ebook (per guardare la traccia clicca qui)

Ecco una traduzione dell’incipit del capitolo 3 del Grande Gatsby di Fernanda Pivano, dal sito Booksblog:

 

“Nelle notti estive mi giungeva la musica dalla casa del mio vicino. Nei suoi giardini azzurri uomini e donne andavano e venivano come falene fra bisbigli e champagne e stelle. Durante l’alta marea del pomeriggio, guardavo i suoi ospiti tuffarsi dal trampolino o prendere il sole sulla sabbia calda della spiaggia privata, mentre i suoi due motoscafi fendevano le acque dello stretto, rimorchiando acquaplani tra cascate di spuma. Nei giorni dei week-end la sua Rolls-Royce diventava un autobus e dalle nove del mattino a notte avanzata trasportava compagnie intere dalla città e ritorno mentre il suo furgoncino scorrazzava come un vivace insetto giallo per trovarsi all’arrivo di tutti i treni.
Di lunedì otto domestici, compreso un giardiniere supplementare, lavoravano tutto il giorno con redazze e spazzoloni e martelli e forbicioni a riparare i danni della notte precedente.
Ogni venerdì cinque casse di arance e limoni arrivavano da un fruttivendolo di New York; ogni lunedì le stesse arance e gli stessi limoni uscivano dalla porta di servizio in una piramide di bucce senza polpa. In cucina vi era una macchina che spremeva il sugo di duecento arance in mezz’ora, purché il pollice di un maggiordomo premesse duecento volte un dato bottoncino.
Almeno una volta ogni quindici giorni un’intera squadra di fornitori arrivava con centinaia di metri di tela e lampadine colorate sufficienti a trasformare il giardino enorme di Gatsby in un albero di Natale. Sulle tavole dei rinfreschi, guarnite di antipasti scintillanti, i saporiti prosciutti al forno si accatastavano, coperti da insalate dai disegni arlecchineschi insieme a porcellini e tacchini ripieni, trasformati come per magia in oro cupo. Nel salone principale era impiantato un bar con un’autentica ringhiera di ottone, stracarico di gin e di liquori e di cordiali di marche dimenticate da tanto tempo che quasi tutte le invitate erano troppo giovani per poter conoscere.
Alle sette è arrivata l’orchestra, non una cosetta di cinque elementi, ma un intero mucchio di oboe e tromboni e sassofoni e viole e cornette e flauti e tamburi grandi e piccoli. Gli ultimi bagnanti sono ritornati dalla spiaggia e stanno vestendosi disopra; le macchine arrivate da New York sono disposte su cinque file lungo il viale; già le sale e i saloni e le verande sono sgargianti di colori e di pettinature nuove e strane e di scialli che superano i sogni di un castigliano. Il bar è in piena attività, e le ronde fluttuanti di
cocktails permeano il giardino, finché l’aria risuona di cicalecci e risa e frasi di convenienza e di presentazione subito dimenticate e di incontri entusiastici tra donne che non si conoscevano neanche di nome.
Le luci diventano più festose mentre la terra si nasconde al sole, l’orchestra suona gialla musica da cocktail e il coro delle voci raggiunge un tono più alto. Il riso che si fa più facile di minuto in minuto, viene profuso con prodigalità, donato a ogni parola gioconda. I gruppi si trasformano più rapidamente, si allargano con i nuovi arrivi, si sfanno e rifanno nell’attimo di un respiro; già ci sono le ragazze che si aggirano qua e là tra altre più salde e più ferme, diventano per un rapido momento gioioso il centro di un gruppo, e poi, eccitate dal trionfo, proseguono tra i volti e le voci e i colori mutevoli come il mare sotto la luce sempre cangiante”.