Milano, la procura contro Google: “Sulla privacy violano diritto italiano”

Pubblicato il 28 Settembre 2009 - 10:10 OLTRE 6 MESI FA

Tra la multinazionale americana Google e la procura di Milano è in corso un vero e proprio braccio di ferro sulla privacy e la conservazione dei dati. All’origine della polemica il caso di un ragazzo down picchiato e filmato da 4 studenti torinesi. Il video dell’aggressione è finito in rete e, tra gli imputati, figurano anche quattro dirigenti di Google che sono accusati di diffamazione e violazione della privacy.

Ma il cuore del problema è un altro: l’azienda Usa, per bocca della vicepresidente Nicole Wong,  rivendica il diritto di difendere la privacy dei clienti non rivelando i dati all’autorità giudiziaria anche «in pre­senza di specifiche circo­stanze di emergenza che im­plicano un imminente peri­colo di morte o di gravi le­sioni fisiche».

Non solo: al di là della discrezionalità Google rivendica anche il diritto di non conservare i dati per più di 30 giorni. Pretese, però, che non vanno giù alla procura di Milano che definisce la politica aziendale del colosso statunitense «non conforme al diritto italiano sotto più profili».

Per il procurato­re aggiunto della Re­pubblica di Milano, Cor­rado Carnevali, il fatto che Google non conservi i dati dell’account di posta elettronica g-mail per oltre 30 giorni «non ha alcuna giustificazione in diritto e comporta, per la sua brevità, un evidente pre­giudizio agli accertamenti informatici a fini investigati­vi».

La normati­va italiana, infatti, preve­de per la conservazione dei dati attinenti al traffico tele­matico un periodo non inferiore ai 12 mesi. E per l’autorità giu­diziaria milanese, Google dovrebbe «essere sog­getta alla normativa italia­na, visto che rivolge i propri servizi anche verso cittadi­ni italiani e comunitari».

Carnevali, infine, accoglie con «profondo sconforto» la pretesa di Google di riservarsi il diritto di comunicare o meno i dati anche «in presenza di specifiche circostanze di emergenza che implicano imminente pericolo di mor­te».