“Palmina Martinelli no suicidio, arsa viva”: riaperto caso

di redazione Blitz
Pubblicato il 4 Aprile 2016 - 11:24 OLTRE 6 MESI FA
"Palmina Martinelli no suicidio, arsa viva": riaperto caso

“Palmina Martinelli no suicidio, arsa viva”: riaperto caso

BARI – Palmina Martinelli non si uccise dandosi fuoco a 14 anni nel bagno di casa. Ma venne arsa viva perché non voleva fare la baby prostituta. La procura di Bari riapre, a distanza di 35 anni, una delle pagine più tristi della cronaca nera. Un caso irrisolto, o meglio risolto da varie sentenze con due assoluzioni e una sentenza definitiva: fu suicidio.

Ora sarà la Procura di Bari ad indagare sulla morte della ragazzina, avvenuta a Fasano (Brindisi) l’11 novembre del 1981. Quel pomeriggio Palmina fu trovata avvolta dalle fiamme nella sua casa. La ragazzina morì 22 giorni dopo nel Policlinico di Bari. La riapertura del caso è stata decisa dalla Corte di Cassazione con sentenza del 30 marzo scorso, annullando l’ordinanza del gip di Brindisi che il 28 aprile 2015 aveva disposto l’archiviazione dell’inchiesta sulla morte sopraggiunta “a causa delle ustioni riportate nel suo abbruciamento”. La Suprema Corte – riportano alcune testate – ha accolto il ricorso di Giacomina Martinelli, una delle sorelle di Palmina, che nell’ottobre 2012 presentò una denuncia alla Procura di Brindisi facendo riaprire il caso. Che la morte di Palmina non fu suicidio lo disse lei stessa, allo stremo delle forze, poco prima di morire. Lo disse con forza, facendo il nome dei suoi aguzzini, al pubblico ministero. Lo disse davanti a un registratore, e la sua voce registrata è risuonata nelle aule del processo così come in televisione, a Chi l’ha visto, ad esempio, che ha sempre seguito il caso. Ecco come il sito della trasmissione riassume la triste vicenda di questa ragazzina:

Era l’ 11 novembre del 1981 quando Palmina Martinelli, appena 14enne, venne ritrovata nella sua abitazione di Fasano dal fratello maggiore Antonio, che rincasava intorno alle 16.25, in piedi sul piatto doccia del bagno di servizio con il corpo avvolto dalle fiamme, nel tentativo di salvarsi, reso vano dalla mancanza d’acqua. Sia al fratello che le prestò i primi soccorsi, sia ai medici, agli infermieri e ai carabinieri che per primi la interrogarono, fece con lucidità i nomi dei suoi carnefici, che dandole fuoco avevano voluto punirla per essersi rifiutata di prostituirsi. Presso il Centro di Rianimazione del policlinico di Bari dove fu trasportata per la gravità delle ustioni riportate, Palmina Martinelli rilasciò le sue ultime dichiarazioni alla presenza del pubblico ministero Nicola Magrone e del dott. Tommaso Fiore, responsabile del centro. Le sue parole vennero prima trascritte a verbale e poi registrate anche su nastro magnetico. Con tutta la voce che ancora aveva in corpo, Palmina rispose alle domande degli inquirenti: “Chi ti ha fatto del male?”. “Giovanni, Enrico”, disse. “Puoi dire anche il cognome di queste persone?’ “Uno Costantino. L’altro non lo so”. “Cosa ti hanno fatto queste persone?”. “Alcol, fiammifero”. Giovanni Costantino, uno dei due uomini indicati da Palmina era il ragazzo di cui lei era innamorata. All’epoca dei fatti aveva 19 anni, faceva il militare a Mestre e Palmina gli scriveva delle lettere d’amore. Costantino era già stato incarcere e con il fratellastro Enrico procacciava ragazzine da avviare alla prostituzione. La sorella maggiore di Palmina, Franca, aveva subìto questo destino: si era innamorata di Enrico, era andata a vivere in una chiesa sconsacrata con il giovane e la madre di lui, e dopo aver dato alla luce una figlia, venne costretta a prostituirsi. Come Enrico con Franca, anche Giovanni stava tessendo la sua tela intorno a Palmina. Quindi la stessa Palmina accusò i suoi assassini, indicò la dinamica, il movente e l’ambiente in cui maturò l’omicidio. Pochi giorni dopo le sue dichiarazioni, il 2 dicembre, morì. Il processo davanti alla Corte d’Assise di Bari iniziò il 28 novembre del 1983 e si concluse il 22 dicembre dello stesso anno con l’assoluzione degli imputati principali per insufficienza di prove. La Corte, per esclusione, avvalorò l’ipotesi del suicidio, sostenuta anche da una lettera lasciata da Palmina sul tavolo della cucina di casa e così interpretata: “Depressa per come veniva trattata in famiglia, avrebbe scritto una lettera di addio alla madre e si sarebbe suicidata dandosi fuoco da sola”. Contro la sentenza di primo grado, il Pm propose impugnazione. Ma ciò non servì a modificare il verdetto, confermato sia in Appello, nel 1987, che in Cassazione, l’anno dopo. La sorella Giacomina non ha mai avuto dubbi, Palmina non si sarebbe mai suicidata.