Perché crollano i ponti? Tondini al risparmio e sabbia di mare: così il cemento è meno armato

di Redazione Blitz
Pubblicato il 10 Marzo 2017 - 10:18 OLTRE 6 MESI FA
Perché crollano i ponti? Tondini al risparmio e sabbia di mare: così il cemento è meno armato

Perché crollano i ponti? Tondini al risparmio e sabbia di mare: così il cemento è meno armato

ROMA – Perché crollano i ponti? Tondini al risparmio e sabbia di mare: così il cemento è meno armato. Il cavalcavia della superstrada 36 a Lecco il 28 ottobre, quello sull’A14 all’altezza di Camerano di ieri per citare solo gli ultimi – disastrosi e mortali – crolli: ma com’è possibile che con le tecnologie moderne piccoli ponti vengan giù come cartongesso? Facile arguire che non si fanno più i ponti di una volta in un paese come l’Italia dove sono ancora percorribili quelli di pietra con un paio di millenni alle spalle.

Calcestruzzo armato. Al netto di responsabilità e omissioni che sarà la magistratura ad accertare, il grande imputato a livello ingegneristico è il cemento armato, meglio dire il calcestruzzo armato, scoperta relativamente recente che dall’Ottocento ha rivoluzionato il mondo delle costruzioni consentendo soluzioni ardite e inedite per le grandi opere come dighe e grandi ponti. Questo calcestruzzo armato è infatti una miscela, un cocktail di componenti: cemento, acqua, sabbia e ghiaia nella quale si applica l’armatura fatta di sbarre di ferro e acciaio.

Tondini di ferro al risparmio e sabbia “salata”. Se però, per esempio, al posto della sabbia di fiume si utilizza quella di mare che ha il vantaggio per l’impresa costruttrice di essere disponibile gratuitamente, ecco che il sale aggredirà la struttura metallica ridicendone esponenzialmente robustezza e resistenza alla trazione. Se poi la sezione dei tondini di ferro si riduce, non viene scanalata ma lasciata liscia, sempre per risparmiare tempo e materiali, ecco un altro fattore di rischio. Su La Stampa Mario Tozzi punta il dito anche contro una certa trascuratezza nel progettare grandi ponti, come fossero opere normali, di routine, quando in realtà pongono problemi ingegneristici difficili da prevedere.

Nel 1940 il Tacoma Bridge (stato di Washington in Usa), lungo oltre un chilometro e mezzo, crollò appena sette mesi dopo la sua apertura perché non riuscì a resistere alle sollecitazioni laterali indotte dai «forti» venti (67 km/h) della regione. Sembra incredibile, ma il vento può far crollare un ponte dopo averlo fatto ondeggiare paurosamente come una frusta manovrata da un domatore (le immagini del Tacoma Bridge stupiscono ancora oggi, come un monito per chiunque costruisca ponti). Il ponte di Akashi (Giappone), con la campata unica più lunga del mondo (finora), fu ricostruito nel 1998 successivamente a un fortissimo terremoto che distrusse la città di Kobe tre anni prima e costrinse gli ingegneri a spostarlo e a ridisegnarlo, constatando che una delle due torri risultava dislocata di oltre un metro rispetto alla sua posizione iniziale. (Mario Tozzi, La Stampa)