Ma il Pigneto non è il Far West

di Antonio Sansonetti
Pubblicato il 5 Gennaio 2012 - 19:58| Aggiornato il 24 Gennaio 2013 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Tecnicamente, via Alò Giovannoli è ancora Pigneto e non Torpignattara. C’è un mazzo di fiori al numero 26, dove sono stati uccisi a colpi di pistola Zhou Zheng e la sua figlioletta Joy, di sei mesi, e dove è stata accoltellata sua moglie Li Yan Zheng. Per terra ci sono i cerchi gialli fatti dai carabinieri. Intorno, telecamere e giornalisti. Sulla destra, la bandiera rossa della sede del Partito dei comunisti italiani e poi un muro: via Giovannoli è una strada senza uscita, fra due isolati di palazzi a sei piani. Perfetta per un agguato, soprattutto alle 22, quando i pochi negozi nella via sono chiusi. Dall’altro lato, la strada sfocia su Via Tempesta, molto affollata. Vigili urbani, ancora giornalisti che confrontano le notizie raccolte e poi il quartiere, che non è certo rimasto indifferente all’omicidio.

C’è chi è sconvolto, chi è curioso, chi è quasi inebriato dal quarto d’ora di notorietà (negativa) che l’uccisione di una bimba di sei mesi ha dato a queste quattro vie. Dal bar all’angolo esce un uomo sorridente, sulla trentina: “‘Ndo sta ‘a ggiornalista?”. Tatuaggio sul collo, faccia abbronzata dalla lampada o dal cantiere, orecchino, giubbotto come lo portavano i paninari negli anni 80 e come è tornato di moda adesso. Uno, insomma, con un look non raro nel quartiere (né nel resto di Roma) e che non fa nessuna resistenza a farsi intervistare. Dall’altro lato della strada ci sono ragazzi della zona: sguardo sveglio sotto il cappello baseball, come ne puoi vedere tanti da queste parti, in curva, in discoteca: in tutta Roma.

Chi ha ucciso Zhou Zheng e sua figlia parlava con un forte accento romano. Poteva essere gente del Pigneto come delle zone confinanti di Torpignattara (a sud), Centocelle (a est), Casal Bertone (a nord). Sono tutte aree molto popolate, che all’inizio del ‘900 erano campagna o borgate e che poi si sono riempite di palazzi abitati prima da braccianti e manovali dei Castelli Romani, poi da meridionali, infine da immigrati. In particolare la zona delle vie limitrofe al luogo dell’omicidio è quella più multietnica. Via della Marranella è la parallela di via Tempesta: brulica di gente, di negozietti alimentari e call center di indiani, pakistani, bengalesi, cingalesi. C’è anche una moschea, affollatissima il venerdì ma molto frequentata tutti gli altri giorni. E poi, oltre alle tante attività che continuano ad essere gestite da italiani, ci sono i cinesi: ai tradizionali spacci di vestiti a basso costo e ai ristoranti si sono aggiunti di recente negozi di elettronica, parrucchieri, money transfer e bar.

La famiglia Zheng aveva per l’appunto un bar con annesso money transfer. Il bar, “New Sedrick”, all’angolo fra via Tempesta e a Casilina, era molto frequentato e il money transfer, come tutte le attività di quel tipo in zone a forte densità di immigrati, andava bene. Tutto questo attira malevole attenzioni già in tempi normali, figurarsi in tempi di crisi. “Faccio una rapina sola, becco quei cinesi con l’incasso della giornata e faccio il botto”: può averlo pensato più di un avventore. Eh già, perché il Pil, il prodotto interno lordo di “Cindia” (Cina+India) si mantiene alto anche in Italia e mentre i “Cindiani” stringono la cinghia e stralavorano pur di guadagnarsi soldi, vestiti, scampoli di benessere e case, gli italiani tendono a vivere sempre di più a credito. La capacità di soffrire e di lavorare di questa gente venute da lontano a qualcuno può far incazzare. Qualcun altro ne vuole approfittare: il presidente di Associna, Marco Wong, riferisce di molte telefonate arrivate ai commercianti cinesi poche ore dopo l’omicidio: “Se non paghi, te faccio fa’ la fine de quello lì…”. Ma da qui a parlare di scontro di civiltà ce ne vuole.

(foto Blitzquotidiano)

Alcuni episodi però sono sintomatici e non sono registrati neanche dal mattinale di polizia e carabinieri. In via Pavoni, un’altra parallela di via Tempesta, qualcuno la notte di Capodanno ha pensato di bruciare la porta di casa della famiglia Zhong. La figlia adolescente è rientrata a casa e ha visto le fiamme. Chiamata al 112, carabinieri che restano a cercare di capirci qualcosa fino alle quattro e mezzo di notte, poi si arrendono e se ne vanno. Venti minuti dopo, la porta dei Zhong brucia di nuovo. Puzza di alcol da pulizie di casa, niente rumori, nessuno per strada. Stavolta arriva la polizia. E’ stato uno del palazzo? I Zhong raccontano di piccole provocazioni quotidiane, come calci alla porta e buste di spazzatura fatte trovare sul pianerottolo davanti a casa loro. Se non è stato uno del palazzo, c’è gente abilissima che ha preso di mira i poveri Zhong.

Sintomi, sussulti, piccoli strappi al tessuto della convivenza, la maionese del “melting pot” che impazzisce sotto i colpi della crisi economica. E della densità demografica: 16 mila abitanti per km quadrato, in questa zona, con pochissimo verde pubblico a disposizione. Convivenza non sempre facile che sfocia a volte in episodi che fanno quasi ridere, come quello dell’italiano che picchia un bengalese perché non sopporta più gli odori della sua cucina. Ma ce ne sono stati altri che hanno fatto meno ridere, come la spedizione punitiva contro un negozietto bengalese, tre anni e mezzo fa, che fece gridare con troppa enfasi a un “Pigneto razzista”. Era invece un fatto di ritorsioni fra piccoli spacciatori nell’ambitissima piazza dell’isola pedonale di via del Pigneto. Sempre più movida di locali e ristoranti nella via centrale con corollario di sempre più fiorente smercio di hashish e droghe varie nelle viuzze laterali. Residenti che protestano per il chiasso, le risse, i furti; vigili e carabinieri che arrivano e fanno ormai presidio fisso.

Ma fuori dalla zona “vip” e alla moda c’è un altro Pigneto, quello che arriva a est fino a via dell’Acqua Bullicante, a sud fino alla Casilina e a nord fino alla Prenestina: quello delle vie delle ville, deserte la sera; e quello più popolare, pieno di bar con la scritta “bar”, refrattari alle novità dell’architettura d’interni ma con prezzi più adeguati per chi vuole difendersi dalla recessione con due dita d’amaro o un bicchiere di vino. Per i residenti che rientrano la notte, questi bar aperti fino a tardi sono l’unico vero presidio di sicurezza: gli agguati vengono meno bene se ci sono delle persone in strada che ti osservano. Perché l’unico vero controllo sociale possibile è quello… sociale. Se i quartieri sono vivi, sono meno pericolosi. Allora parrocchie, moschee, negozi, circoli, bocciofile, bar, tutto va bene purché porti le persone a incontrarsi e a popolare le strade la sera.

Roma è una città troppo grande e popolata per renderla sicura con tattiche militari. Gli ultimi che ce l’hanno fatta sono i nazifascisti e non ne sentiamo certo la nostalgia. Chi cavalcando l’allarme sicurezza in campagna elettorale è arrivato a diventarne sindaco non può essere ora incolpato di ogni stupro o di ogni omicidio che avviene (33 negli ultimi 12 mesi) in uno dei territori comunali più vasti del mondo. Ma può essere incolpata quella politica che vuole risolvere problemi così complessi con demagogia, allarmismo, ronde o fantomatici spostamenti di truppe impossibili da finanziare per le esangui casse dello Stato. Questo succede nella Capitale ma si replica anche in altre grandi, medie e piccole città d’Italia.

Il Pigneto, tre quarti d’ora di camminata dal centro-centrissimo di Roma, non è il “Far West” e non ha bisogno di sceriffi. I suoi problemi non si risolvono coi proclami e con le operazioni spettacolari. Neanche con l’auspicabile cattura dei due feroci assassini della famiglia Zheng. Serve un impegno costante fatto di azioni poco rivendibili sul mercato elettorale. Ad esempio, quando si saranno spenti i riflettori dei media, assicurarsi che i lampioni delle strade restino accesi.