Roma, muore di cancro al pronto soccorso. San Camillo: “Letti a chi può salvarsi”

di redazione Blitz
Pubblicato il 5 Ottobre 2016 - 20:45 OLTRE 6 MESI FA
Roma, muore di cancro al pronto soccorso. San Camillo: "Letti a chi può salvarsi"

Roma, muore di cancro al pronto soccorso. San Camillo: “Letti a chi può salvarsi”

ROMA – “E’ una questione complicata da comunicare. Si manda in un posto letto, magari di terapia intensiva, una persona che ha maggiore possibilità di giovarne” piuttosto che “una di cui so, con assoluta certezza, che non potrò salvare”: con queste parole il direttore sanitario dell’ospedale San Camillo di Roma, Luca Casertano, ha risposto a chi gli domandava come sia stato possibile che un malato terminale sia stato abbandonato al pronto soccorso, fino a morire lì, nell’indifferenza di tutto il personale medico. Una situazione denunciata dal figlio del malato, che ha scritto una lettera al ministro della Salute Beatrice Lorenzin.

“Noi abbiamo un settore più tranquillo e defilato dove in genere mettiamo i ‘fine vita’, ha aggiunto Casertano. Ma purtroppo non era disponibile. Si tratta di un’area, non dedicata o strutturata, a fianco dei codici gialli e rossi, ma purtroppo era occupata da un malato grave e  da un altro ‘fine vita’. Con i fondi del Giubileo, nell’ambito dell’ampliamento del pronto soccorso, creeremo due aree dedicate con accesso separato”.

Casertano spiega anche che

“Dal pronto soccorso non è immediatamente attivabile una struttura più idonea dove inviare i pazienti” in condizioni simili a quelli del malato terminale. Vanno attivati i servizi territoriali,  quelli della Asl che devono ricevere una richiesta e valutarla. E’ possibile prendere in carico il paziente in tempi brevi, in pochi giorni, a domicilio o in hospice, ma andava fatto prima. Può accadere che davanti a un paziente con una lunga storia di malattia neoplastica, di fronte all’aggravamento dei sintomi, i familiari lo possano portare in ospedale per sperare di prolungargli la vita”.

Al pronto soccorso del San Camillo, dice il dirigente,

“siamo abituati a gestire traumi complessi. Ma di fronte a un paziente di cui è evidente la situazione terminale di malattia, l’operatore si sente anche ‘impotente’, e sa che l’attivazione del percorso corretto dura qualche giorno. Forse la raccomandazione più opportuna sarebbe stata quella di riportarlo a casa, ma è difficile, perché quando si porta un proprio caro in ospedale ci si aspetta una presa in carico”.