Cannibali per non morire a piedi fra i ghiacci delle Ande…

di redazione Blitz
Pubblicato il 23 Febbraio 2016 - 08:03| Aggiornato il 21 Aprile 2020 OLTRE 6 MESI FA
Cannibali per non morire a piedi fra i ghiacci delle Ande...

Cannibali per non morire fra i ghiacci delle Ande… (Nella foto Roberto Canessa, ieri e oggi)

LONDRA – Cannibali per non morire. Per sopravvivere mangiarono la carne dei loro amici morti nell’aereo caduto sulle Ande, il 12 ottobre 1972. A bordo c’erano i giocatori di rugby di una squadra molto famosa, gli “Old Christians”, in tutto sull’aereo militare dello Uruguay c’erano 45 persone, dopo due mesi erano rimasti in 19. Si salvarono mangiando carne umana e poi perché due di loro affrontarono un viaggio di giorni attraverso le montagne coperte di neve e ghiaccio finché incontrarono un mandriano che mise in moto i soccorsi.

Uno dei due coraggiosi, Roberto Canessa, ha scritto, a quattro mani con Pablo Vierci, un libro, già uscito in Sud America, in libreria il 3 marzo in Inghilterra: “I Had To Survive: How A Plane Crash In The Andes Inspired My Calling To Save Lives”.

Sulla loro storia è stato fatto un film, Alive – Sopravvissuti, nel 1993. In questi anni, Roberto Canessa, dopo essere tornato a giocare a rugby, avere sposato la fidanzata e essersi laureato in medicina, è diventato un importante cardiologo e si è dato anche alla attività politica.

Il Daily Mail di Londra ha pubblicato una anticipazione di uno dei drammatici momenti della vicenda di Roberto Canessa, la traversata delle Ande.

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Dietro di noi, la fusoliera diventava sempre più piccola. I nostri amici ci osservavano dalle lamiere dell’aereo mentre noi due cominciavamo a scalare la montagna. Ogni tanto mi giravo a guardare per guardarli fino a che non diventarono delle minuscole formiche che si muovevano su una nevosa tela bianca. Non c’è da stupirsi se gli aerei di salvataggio non ci avevano ancora visti. Con la fusoliera bianca, camuffata contro la neve, eravamo praticamente invisibili.
Poi, non vidi più i nostri amici e sentii un brivido di ansia visto che il cordone ombelicale che ci teneva attaccati a loro era danneggiato. Eravamo rimasti solamente in 16 dei 45 che erano a bordo due mesi prima quando l’aereo precipitò. Li avremmo rivisti ancora? Ne dubitavo.
Ci eravamo salutati con i primi raggi dell’alba, pronti per la nostra missione vita o morte. Sulla schiena portavo un sacco a pelo fatto con le fibre di isolamento presenti nella coda dell’aereo. Portavo anche un calzino da rugby riempito di quello che era il nostro cibo: strisce di carne umana congelata che avevamo tagliato, presi dai sensi di colpa e dal tormento, dai corpi dei nostri amici morti.
Il mio amico Nando ed io camminavamo con gli stivali da rugby, utilizzando dei cuscini dell’aereo come racchette da neve, ognuno di noi aveva un bastone di ferro e un pezzo di corda. In realtà, non avevamo idea di cosa ci servisse. Nessuno dei due aveva esperienza con l’arrampicata. La parete della montagna era quasi verticale, e l’aria era così sottile che ogni pochi metri restavamo senza fiato.
Mentre la notte rapidamente divorava il crepuscolo, improvvisamente non eravamo in grado di  vedere nulla davanti. Non sapevamo se stavamo pestando  la terra ferma o fossimo in procinto di cadere in un burrone. “Cosa sto facendo qui?” Urlai “Dove mi trovo, in nome di Dio?”.
I nostri vestiti zuppi di sudore cominciarono a congelare non appena la temperatura si abbassò. Il vento sembrava intenzionato a frustarci. Era come se stessimo andando a morire la prima notte lontani dall’aereo. Ma come spesso mi accade, la disperazione mi rese più forte. Inciampare in un canyon era preferibile a rincunciare e aspettare di morire congelato.
Alla fine, quando tutto sembrava perduto, ci imbattemmo in un’area spazzata dal vento sotto a un affioramento di pietre, accanto al bordo di un abisso dove ci sdraiammo e aspettammo che la terribile notte finisse. Un passo falso ci avrebbe fatto cadere oltre il bordo, ma se ci attaccavamo l’uno all’altro speravamo contro ogni speranza di arrivare al mattino seguente.
Il terzo giorno io e Nando ci avvicinavamo alla vetta. Solo allora fummo in grado di guardarci attorno per vautare la sfida che ci attendeva. Quante volte avevamo visualizzato nelle nostre menti le valli verdeggianti che credevamo dall’altra parte della montagna: villaggi, pastori felici, cibo in abbondanza.
Fu Nando ad arrivare per primo: Cosa riesci a vedere? gli chiesi mentre mi arrampicavo per raggiungerlo. Stava fissando un punto nel vuoto lontano, in silenzio. Appena lo raggiunsi, capii perché. Davanti a noi c’era un infinità di vette innevate che sparivano all’orizzonte. Est, ovest, nord, sud: non c’erano che ghiaccio, neve e montagne. Siamo morti, pensai. la mia era un’assoluta disperazione.
Poi Nando puntò un dito. Seguii il dito, che indicava in direzione del Cile. Lì, difficilmente visibili ad occhio nudo, c’erano due vette gemelle che sembrava non fossero coperte di neve. Erano incredibilmente lontane, ma erano anche la nostra unica speranza.
“Riesci ad immaginare la bellezza di tutto ciò se non fossimo condannati?” disse Nando. Quella notte ci stringemmo nel nostro sacco a pelo improvvisato, non solo per scaldarci, ma per combattere la paura dell’ignoto. Sapevamo entrambi che con ogni probabilità saremmo morti. Ma volevamo prima fare un po’ di concorrenza alla morte. La mattina dopo, a poco a poco, cominciammo la discesa.
Durante qualche allungamento scivolavamo per la montagna, quasi seduti; altre volte ci avvinghiavamo alla montagna, stando attenti che i nostri pesanti zaini non ci tirassero indietro. Ci controllavamo a vicenda, sempre all’erta.
Al calare della notte eravamo esausti e malconci. Indossavo tre paia di pantaloni uno sull’altro, i jeans che portavo sopra erano pieni di buchi. Ogni parte del mio corpo macinato dalle pietre era in sofferenza. L’unico modo che avevo per sopravvivere in quei primi giorni era stabilire a me stesso degli obiettivi a breve termine. Niente di più del raggiungere il masso seguente, la punta seguente, la prossima formazione seguente. C’erano molti modi di morire, era meglio focalizzarsi sulla remota possibilità che saremmo sopravvissuti. Tenere la testa giù, continuando a camminare.
A volte pensavo di aver sentito un aereo. Nando giurava di no. Solo dopo scoprimmo che un aereoplano con i nostri familiari stava certamente cercandoci, scandagliando i monti. Il settimo giorno cominciammo a chiuderci in noi stessi. I nostri corpi e le nostre menti cominciavano a mancare. La mia pelle aveva assunto un colore verdognolo e i miei alluci stavano diventando neri per l’ipotermia.
Sognavo la mia ragazza Lauri a Montevideo. Si sarebbe trovata un altro ragazzo. Ma come avrebbe fatto mia madre ad andare avanti?
La notte prima di addormentarci, io e Nando ci raccontammo sussurando le speranze future dell’altra vita. Non fui mai così vicino ad un amico come accadde con Nando durante il nostro cammino, e mai lo sarò. La vita in montagna aveva i suoi ritmi, sua routine, le sue regole selvagge e diventammo parte di ciò.
Per noi, il giorno finiva alle 16 quando il sole spariva dietro le montagne a ovest. Ma quel settimo giorno, mentre preparavamo il nostro accampamento, ci sentimmo diversi. Guardai l’orologio, erano le 16:15 e il sole stava ancora splendendo. Qualche minuto dopo controllai un’altra volta. Il sole sarebbe dovuto scomparire dietro le montagna da più di 30 minuti, come accadeva sempre.
Ma non stanotte. “Nando, perché il sole illumina ancora la valle?” Guardammo insù. “Se il sole non è bloccato, vuol dire che siamo quasi fuori dai monti!” Gridai. “Laggiù, dove il sole splende ancora, quella è l’uscita!”. Quella notte il buio totale non calò fino alle 19:12.
Sveglio il giorno seguente, dopo una notte senza riposo, relizzai che mentre il mio corpo era esausto, la mia mente si sentiva più chiara. “C’è decisamente più ossigeno qui” dissi sorpreso a Nando. Viaggiando ulteriormente verso il basso quel giorno, la neve cominciò a dare spazio a terreno roccioso e ghiaia. Poi improvvisamente, miracolosamente, sparì. L’unico bianco che potevamo scorgere adesso era in alto, lontano. Il posto dove ci fermammo era arido e desolato, dove probabilmente nessun uomo aveva messo piede prima. Ma a me, sembravano le porte del paradiso. Un’ora dopo, la cosa più bella di tutte: sei piedi davanti vidi una lucertola, che  fissando dritta verso di me. Ero estasiato, ipnotizzato. Le origini della vita cominciavano a emergere nelle loro forme più primitive.
Quella notte, trovammo i primi rami visti per mesi e accendemmo un fuoco con un accendino che avevamo portato nel nostro zaino. Gettammo il sacco a peli  non sul ghiaccio, ma su un cuscino  di vegetazione. Era la prima volta dal 13 ottobre che non avremmo dormito in balia della montagna.
Il giorno dopo i segni della civilizzazione iniziarono a moltiplicarsi. Lo zoccolo di un cavallo. Un barattolo di latta arrugginita. Un flusso che diventava un fiume impetuoso. Un gruppo di alberi, e accanto a loro due mucche.
Più tardi,  alberi abbattuti da accette. Impronte di stivale erano tutte intorno a noi.
“Ce la stiamo facendo, non è vero?” Nando disse infine, con un’espressione simile a un sorriso – qualcosa che non avevo visto sul suo viso per molte settimane. Eravamo giunti nella civiltà. Nando voleva arrampicarsi su un albero e tirare una pitera in testa a una bestia così avremmo potuto mangiare. Dissi che era meglio tagliare loro i tendini , come facevano i cowboy un tempo.
Nel mezzo di questa assurda conversazione guardai oltre la sua spalla. Dall’altro lato del fiume c’era la silhouette di un uomo a cavallo. Cominciammo a urlare, ma le nostre urla erano soffocare dal fiume ruggente, che era di certo troppo pericolo da guadare. L’uomo fece qualche passo in più, poi si fermò e guardò intorno. Guardavo Nando saltare su e giù, urlando “Aereo!” e scuotendo le braccia sopra e sotto prima di cadere sulle ginocchia e raccogliere le mani in una disperata supplica.
Solo Dio sa a cosa assomigliassimo, probabilmente a uomini selvaggi e pericolosi, piuttoso che i sopravvissuti di un disastro aereo. La notte minacciosa stava tornando. L’uomo ci pesava, ci misurava con gli occhi. Poi ci fece un cenno con le mani e gridò una parola che sentimmo chiaramente sopra al rombo dell’acqua: “Domani”.
Il giorno seguente, poco prima dell’alba, scorgemmo il tremolio delle fiamme dall’altra parte del fiume. C’era l’uomo che ci aveva visti. L’uomo tirò fuori carta e matita dalla sua tasca, legò il foglio a un sasso e lo gettò dall’altra parte del fiume. “Ho mandato un uomo che vi sta raggiungendo. Ditemi cosa volete”.
Nando scarabocchiò una risposta sull’altra parte del foglio. “Siamo quelli dell’ incidente aereo sulle montagne” scrisse. “Abbiamo camminato per dieci giorni. CI sono altri quattordici sopravvissuti sull’aereo. Non abbiamo cibo. Siamo deboli”.
Poi gettò la pietra indietro sull’altra riva. L’uomo lesse il biglietto attentamente, poi gesticolò con le mani come per dire “Ho capito”. Due ore dopo, arrivò un uomo con due cavalli. Ci disse che il suo nome era Armando ed era stato mandato da Sergio Catalan, l’uomo che avevamo visto per primo, che era subito partito per il posto di polizia più vicino, una corsa distante otto ore. Seguendo Armando a cavallo, osservammo il paesaggio cambiare.  Arrivammo su un prato verde brillante irrigato da fossati. Era questo il paradiso in terra, mi chiesi? Siamo sicuri di non essere  morti  una di quelle notti gelide in montagna?
Due piccole cabine spuntavano dalla prateria. Erano semplici e belle, con tetti di paglia, circondate da rose in piena fioritura.
Il cavallo si fermò vicino a  un tavolo sul quale era stato posto un formaggio fresco. ‘Posso avere un pezzo?’ Chiesi.
Scesi dal cavallo e portai il formaggio alla bocca. Diedi un morso, poi un altro e un altro, ingoiando il primo. Nando fece lo stesso mentre il fattore ci guardava esterrefatto. Verso le sei del pomeriggio, giunsero Sergio Catalan e una dozzina di poliziotti. Lo guardai negli occhi e pensai: “Questo è l’uomo che ci ha salvati”. Era l’inizio di un legame  a vita.
“Impossibile!” disse il sergente quando gli raccontammo la nostra storia. Ma non c’era tempo da perdere, i nostri amici stavano morendo sulla montagna. I piloti degli elicotteri si guardarono fra di loro, poi dissero che se dovevano provare -ed era una missione pericolosa- uno di noi sarebbe dovuto andare per indicare la strada. Alla fine , andò Nando. Io ero esausto e lui voleva andare.
Quel giorno, a causa del cattivo tempo, solo sei dei nostri amici raggiunsero la terra della vita. Gli altri otto sarebbero stati salvati il giorno seguente. Tutti erano sopravvissuti in nostra assenza.
Non mi meraviglia che la nostra storia finì per essere conosciuta come “El Milagro”, il miracolo. Prima che salissi sull’elicottero per l’ospedale, per la mia vecchia vita, strinsi la mano ad Armando e Sergio Catalan. Quando li ringraziai, mi guardarono sbalorditi, come se non ci fosse stato nulla di cui ringraziarli. Questi uomini, i guardiani del paradiso: beati gli umili, perché erediteranno la terra. Una delle cose più difficili circa il ritorno alla civiltà, era confrontarsi con la realtà di ciò che avevamo fatto per sopravvivere: mangiare i corpi dei nostri più cari amici e compagni di squadra.
Quando fui finalmente a casa in Uruguay, andai porta per porta nelle case dei miei amici che non ce l’avavano fatta, per dire alle loro famiglie cosa avevamo passato, e perché avevamo fatto ciò che avevamo fatto per sopravvivere. Non mi illusi di pensare che avrebbero capito, perché non avevano vissuto ciò che invece toccò a noi. Ma volevo che ascoltassero da chi ci era passato davvero, e volevo dare ad ogni famiglia ricordi dei loro amati, che avevamo attentamente raccolto: orologi, passaporti, oggetti di valore.
Quando ho visitato Gustavo e Raquel Nicolich, il cui figlio restò gravemente ferito e morì durante una valanga che colpì i resti dell’aereo dopo l’incidente, vidi quanto si erano tirati su dal fondo della loro disperazione per aiutare noi, i sopravvissuti, per tentare di guarire le nostre ferite emotive e psicologiche. Come potremmo mai dimenticare la lettera del figlio morente alla fidanzata a casa, che spiega i sacrifici fatti sulla montagna e quanto era felice di offrire il suo corpo se non fosse sopravvissuto?
“Sono giunto alla conclusione che quei corpi fossero lì per la volontà di Dio”, scrisse di quelli che erano morti prima di lui. “E visto che l’anima è l’unica cosa che conta, dopotutto, non ho problemi a offrire il mio corpo se quel giorno dovesse arrivare, così che io possa aiutare qualcun’altro a sopravvivere”.
Abbiamo ricevuto enorme supporto dalle famiglie dei nostri amici. Due mesi dopo il disastro, tornai alla scuola di medicina. Nella mia classe di anatomia, dovevo dissezionare un cadavere umano come uno di quelli che erano sulla montagna. Sentivo addosso gli sguardi di tutti quelli che erano nella stanza, immaginandosi cosa passasse loro per la testa. Non so come feci a restare un tutt’uno quel giorno.
Il mese seguente, quando mi sentii più forte, ricominciai a giocare a rugby. Fu un miscuglio di emozioni giocare non solo con gli altri sopravvissuti, ma anche con i fantasmi dei compagni di squadra rimasti sulle montagne. Alcuni di noi, incluso Antonio “TinTin” Vizintin ed io, andarono avanti a giocare a rugby per la nazionale dell’ Uruguay. Ci incontriamo ogni anno, nell’anniversario del nostro salvataggio, legati da un profondo legame, più profondo di quello che l’essere umano davvero possa conoscere. Il nostro eroe è Sergio Catalan, che si è unito più volte alle nostre riunioni. Viaggio regolarmente per andare a trovarlo in Cile. Ogni volta che lo incontro si rinnova il mio impegno di vita. Ho cercato di vivere in un certo modo per rendere omaggio al sacrificio di coloro che non ce l’hanno fatta; in un modo che valesse il prezzo che hanno dovuto pagare”.