Cavie umane, uomini a pezzi, batteri killer. Unità 731: fabbrica degli orrori

di Silvia Di Pasquale
Pubblicato il 7 Novembre 2016 - 06:48 OLTRE 6 MESI FA
Cavie umane, uomini a pezzi, batteri killer. Unità 731: fabbrica degli orrori

Il generale Shirō Ishii nel 1932. Foto Wikipedia

HARBIN – Cavie umane sottoposte a terribili esperimenti, armi batteriologiche preparate in laboratorio, sperimentate sul campo, all’insaputa di chi ne testava involontariamente gli effetti. Tra il 1936 e il 1945, gli abitanti di Harbin, città della Manciuria (nord-est della Cina), furono vittime dello spietato piano portato avanti da un’unità speciale dell’esercito giapponese, la 731.

Ufficialmente destinata alla purificazione dell’acqua nel Manciukuò, stato fantoccio creato dall’Impero giapponese nel 1932, l’Unità 731 mise in atto uno spietato programma di ricerche batteriologiche. Il fine ultimo degli esperimenti era quello di trovare un’arma finale, che garantisse la supremazia del Giappone sul mondo. Per fare questo era necessario “materiale” umano, che fu individuato nei prigionieri cinesi, principalmente “marutas” (pezzi di legno), termine dispregiativo utilizzato dai soldati nipponici per riferirsi ai sospetti comunisti e criminali comuni. Otto villaggi della zona di Harbin furono evacuati per far spazio alla fabbrica dei batteri killer.

In rete sono disponibili vari articoli relativi all’occupazione di Harbin e agli altri esperimenti dell’Unità 731. Nel 1995, un pezzo pubblicato sul New York Times, a firma di Nicolas D. Kristof, riporta la testimonianza choc di un ex medico che aveva lavorato nella “fabbrica degli orrori”: l’uomo ha riferito che in uno dei laboratori ha visto un contenitore alto 6 piedi (1,8 m.) in cui sarebbe stato “marinato nella formaldeide un uomo tagliato in due pezzi”. “Ho visto campioni con le etichette ‘americano’, ‘inglese’ e ‘francese’, ma la maggior parte erano cinesi, coreani e mongoli”, avrebbe riferito un altro veterano.

A capo dell’Unità 731 c’era Ishii Shiro, medico, microbiologo e generale, soprannominato “il dott Menghele giapponese“. Fu lui a guidare il programma di sperimentazione umana, i cui effetti non si limitarono alla Manciuria, ma anche in altre province.

“Persino quando ormai il conflitto volgeva al termine e si profilava chiara l’imminente caduta del Giappone, nella zona di Harbin furono liberati animali appestati e infettati con virus e batteri letali, mutati in laboratorio in modo tale da renderli trasmissibili all’uomo. Nelle epidemie che seguirono in Cina, dal 1946 al 1948, morirono almeno 30 mila persone”, ha scritto lo storico americano Sheldon H. Harris, nel suo libro “Factories of Death”.

Secondo il professor Harris, scomparso nel 2002, sarebbero morti tra i “10.000 e i 12.000 detenuti negli esperimenti, così come almeno 250.000 uomini civili, donne e bambini”, considerando gli effetti postumi del progetto sulla popolazione. Cifre che tuttavia altri studiosi smentiscono, ridimensionando drasticamente il numero delle vittime. Ma al di là dei numeri, ciò che più colpisce è il silenzio e la reticenza che è stata riservata a questa oscura pagina della storia novecentesca. Come è stato possibile? Marco Lupis, in un articolo pubblicato su Repubblica nel 2003 fornisce una risposta a questo interrogativo:

“Il piano rimase segreto anche dopo la fine del conflitto, grazie alla promessa di immunità fatta dall’esercito degli Stati Uniti ai dottori accusati di crimini di guerra, in cambio dei dati emersi dalle loro ricerche”.