Isis, Libia: “Ultima battaglia per liberare Sirte è iniziata”

di redazione Blitz
Pubblicato il 29 Agosto 2016 - 11:11 OLTRE 6 MESI FA
Isis, Libia: "Ultima battaglia per liberare Sirte è iniziata"

Isis, Libia: “Ultima battaglia per liberare Sirte è iniziata”

TRIPOLI – “L’ultima battaglia di Sirte è cominciata”: l’enfatico annuncio è stato dato domenica dalle truppe e milizie libiche leali al Governo di unità nazionale (Gna) di Fayez Al Sarraj, che affermano che circa mille uomini stanno dando l’assalto agli ultimi due quartieri dove i jihadisti del cosiddetto Stato Islamico sono ancora asserragliati, con il favore dei raid aerei alleati.

“Le nostre forze sono entrate negli ultimi due quartieri di Daesh (acronimo arabo dell’Isis, ndr) a Sirte”, ha dichiarato il portavoce delle forze che appoggiano Sarraj, Reda Issa. A terra sono rimasti già almeno 28 miliziani lealisti morti e 180 feriti, mentre un fotografo dell’Afp descrive “violenti combattimenti nelle strade” e l’avvistamento di cadaveri anche di miliziani del sedicente Califfato.

La caduta di Sirte, città natale di Muhammar Gheddafi, in posizione mediana lungo la costa libica fra Tripoli e Bengasi, rappresenterebbe per l‘Isis un grave smacco strategico, oltre che propagandistico. Dopo averne preso il controllo nel giugno 2015, gli uomini di Al Baghdadi avevano infatti vantato di avere stabilmente messo piede in Libia, lontano dal loro “territorio metropolitano” in Siria e Iraq, e di volerlo usare come trampolino di lancio per estendere la jihad globale verso l’Europa. Sirte doveva essere la loro terza “capitale”, dopo Raqqa, in Siria, e Mosul, in Iraq.

Ma la battaglia per Sirte non è finita. L’offensiva iniziata il 12 maggio, ha ripreso vigore nelle ultime settimane grazie ai raid aerei di Stati Uniti e alleati, ma finora i circa cinquemila combattenti dell’Isis stimati hanno opposto una strenua resistenza, anche se con forze sempre più ridotte, anche con l’uso di cecchini, di trappole, di mine e di attacchi suicidi.

Issa ha spiegato ai media che oggi i carri delle forze filo-Sarraj – formate da milizie formate ai tempi della rivolta contro Gheddafi che hanno rifiutato di deporre le armi – hanno colpito e distrutto un’autobomba “prima che potesse raggiungere le nostre forze”. Le forze lealiste libiche affermano che finora agli uomini del Califfo arroccati a Sirte è stata preclusa la via di fuga via mare e che la marina di Tripoli. E proprio ad alcuni giorni fa – al 17 agosto – risale un episodio che di questo conflitto è un piccolo corollario: il misterioso attacco alla nave di soccorso in mare ‘Bourbon Argos’ di Medici senza frontiere (Msf) denunciato e condannato dall’ong. Oggi la marina militare libica ha ammesso di aver sparato dei colpi di avvertimento all’imbarcazione, che non si era identificata, negando però che suoi uomini fossero saliti a bordo, come sostenuto da Msf.

 

Ecco il racconto della battaglia per Sirte fatto da Francesco Semprini sulla Stampa: 

“Fate fuoco”: l’urlo del comandante viene seguito da una tempesta di proiettili: fucili, mitragliatori, colpi di artiglieria, tutti in direzione Nord, verso il “Quartiere 3”. È da lì che avanza a tutta velocità una vettura blindata alla buona: è un’autobomba dello Stato Islamico. I proiettili crivellano la macchina, ma il kamikaze prosegue la corsa verso il martirio tentando di incunearsi tra due edifici nel distretto di Anaga: nulla può però davanti ai dirompenti colpi di artiglieria ai quali si aggiunge il fuoco di un carro armato.

L’esplosione è assordante, il kamikaze salta in aria a 20 metri dal palazzo nel quale ci troviamo, le mura tremano, i vetri sono in frantumi. Poi il silenzio, interrotto dal grido di «Allah Akbar», Allah è il più grande.

A Sirte nel golfo dello Stato maghrebino ha avuto inizio ieri la madre di tutte le battaglie, quella per liberare definitivamente la città natale di Muammar Gheddafi dall’Isis, l’ultima spallata per eliminare del tutto la resistenza del manipolo di irriducibili al soldo di Abu Bakr al Baghdadi. E restituire Sirte ai libici.

(…) Le forze di terra avanzano su tre fronti, quello Est dove si è schierata la Brigata 166 con gli uomini più addestrati coadiuvati da forze speciali Usa, da Sud e da Ovest con cui lavorano oltre gli americani anche i britannici. A Nord, ovvero alle spalle dei due «quartieri neri», c’è il Mar Mediterraneo pattugliato da motovedette e unità della Marina libica che ogni tanto «regalano» colpi di cannone a scopo intimidatorio. L’obiettivo è consentire il riallineamento delle forze a Sud rimaste più indietro rispetto di quelle ad Ovest ed Est, in modo tale di rendere più agevole l’affondo finale con una manovra a tenaglia. Gli jihadisti rispondono invece con uno schieramento di cecchini tra le rovine dei quartieri 1 e 3, in tutto circa 2 km quadrati, colpi di mortaio ma soprattutto trappole-bomba con cui sono disseminate strade e rotatorie di accesso alla zona. Ci sono poi i kamikaze alla guida di auto cariche di esplosivo scagliate come arieti sulle postazioni nemiche. Autobombe come quella esplosa a venti metri dalla postazione dove ci trovavamo, una palazzina nel cuore di Anaga, davanti al quartiere 3: lo Stato islamico in linea d’aria si trovava a 200 metri come ricordano i sibili dei proiettili dei cecchini e il roboante suono dei mortai.

(…) Mustafa Shebani, comandante della Terza Brigata, indossa la mimetica in dotazione all’esercito italiano, ai piedi gli immancabili sandali e in mano la radio con cui coordina uomini e mezzi. Il volto è rassicurante come quello di un vecchio amico di infanzia, ed è quello che ci vuole visto che a pochi metri i suoi uomini stanno dando battaglia. Fucili automatici, Ak-47, e Ar-15, mitragliatrici pesanti, Rpg (i lanciarazzi a spalla) pezzo forte di tutte le guerriglie. E poi ci sono i mortai e le «machine gun» montate sui pick-up Toyota che si alternano in prima linea come una giostra di fuoco. Nessuno è uguale all’altro in un folclore di divise e portafortuna, come i peluche donati dai figli dei combattenti o i panama mimetici di alcuni soldati. C’è chi con una scimitarra al vento si avventura sulla linea di tiro dei cecchini per gridare Allah Akbar. È senza dubbio lo spontaneismo a compensare la mancanza di mezzi e tecnologia: «Noi siamo il vero Islam, non loro», dice Halid, giovane combattente mentre indica una bandiera nera, la linea del nemico.