Racconta David Rohde, giornalista rapito dai talebani

di Francesco Montorsi
Pubblicato il 3 Novembre 2009 - 09:00| Aggiornato il 4 Novembre 2009 OLTRE 6 MESI FA
David Rohde, sul campo in Afghanistan

David Rohde, sul campo in Afghanistan

David Rohde siede in macchina a fianco a due colleghi afghani. Si dirige ad un appuntamento con un talebano quando un gruppo di uomini armati circonda la macchina e li prende prigionieri. Nessuno parla. Attraverso il finestrino David guarda il panorama desolato e pensa che tra pochi minuti saranno tutti morti.

In quel momento l’intervista, che ora li ha intrappolati, sembra inutile e sconsiderata. Un’ondata di vergogna prende David mentre pensa di aver messo in pericolo la sua vita, così come quella di Tahir e Asad che l’accompagnano. Al giornalista viene ordinato di uscire dalla macchina, mentre i due colleghi vengono picchiati dai rapitori coi calci dei fucili e portati via. A Rohde vengono immediatamente tolti occhiali, carnet d’appunti, penna e macchina fotografica. Lo bendano, gli legano le mani dietro la schiena. Il cuore martella nel petto. È coperto di sudore.

« Habarnigar » dice, nella lingua Dari significa giornalista e « Salaam ». Viene spinto a forza in una macchina, costretto a sdraiarsi sui sedili posteriori. La macchina parte. Tahir e Assad non ci sono, forse sono morti. Dopo due ore, il viaggio finisce, le mani di David vengono liberate. Il giornalista è portato in una casupola fatta di fango rannicchiata nel centro di una gola sperduta. È spinto in un minuscolo bagno dove pochi minuti dopo, strattonati dai rapitori, lo raggiungono Tahir e Asad.

Dopo mezz’ora le guardie li conducono in un salone addobbato con tappeti e cuscini. Una manciata di uomini siede accostata ai muri. Kalashnikov sono poggiati al loro fianco. Un uomo imponente, il volto avvolto nella sciarpa tradizionale afghana, gli occhi protetti da occhiali da sole, annuncia: « Io sono il comandante talebano. Il mio nome è Mullah Atiqullah. »

David Rohde e i suoi compagni saranno tenuti in ostaggio per i seguenti sette mesi e dieci giorni. La prima settimana in Afghanistan, le successive nelle aree tribali del Pakistan, dove si presume che da anni si nasconda Osama Bin Laden

Il giornalista americano aveva già documentato per il New York Times i legami tra l’intelligence pakistana e il movimento dei talebani. Nonostante questo, la realtà che esperimenta nella tragica occasione del rapimento supera ogni supposizione. Antichi posti di controllo dell’esercito pakistano sono adesso tenuti da militanti afghani. Ragazzi di vent’anni hanno un inderogabile diritto di vita e di morte su chiunque non possegga un kalashnikov e la giusta parola d’ordine.

Le guardie promettono a David di trattarlo secondo i per i prigionieri di guerra. E il trattamento che David riceve lo sorprende. Non è picchiato, prende dell’aria una volta al giorno, lo nutrono e gli danno da bere. Ma, nel contempo, ritengono che sia religiosamente sporco. David, cristiano non osservante, beve in bicchieri e mangia in piatti accuratamente separati. Credono che sia infetto.

Nei primi giorni i rapitori esprimono le loro opinioni sugli occidentali. Sono ossessionati dalle morti di civili afghani, iracheni, palestinesi nei raid aerei, così come dalla detenzione di cittadini musulmani in prigioni americane, senza che questi siano processati. America, Europa e Israele proclamano i valori della democrazia e dei diritti umani e della giustizia imparziale nei confronti dei mussulmani ma non riescono ad andare oltre la loro dichiarazione di intenti.

I mesi passano e David odia sempre di più i suoi prigionieri. Si dichiarano pii musulmani ma ai suoi occhi non sono altro che una banda di criminali sanguinari. Si descrivono come i veri seguaci dell’Islam ma rivelano incessantemente malafede ed avidità.

David Rohde è arrivato in Afghanistan il 25 ottobre 2008. Doveva restarci tre settimane e raccogliere materiale per un libro sulla regione in preparazione. Rohde, giornalista navigato, era intenzionato a descrivere il conflitto ottenendo informazioni da entrambe le parti belligeranti.

Grazie all’aiuto di un giornalista afghano, capace in passato di organizzare interviste con talebani, David riesce a organizzare un’intervista con Abu Tayyeb nella provincia di Logar, talebano allineato con una fazione moderata degli insorti.

Nulla è sicuro, e Tahir, il giornalista che organizza l’incontro, glielo fa presente. « Nulla è sicuro al 100 per cento. Si muore una volta sola. »

Lo stomaco di David si arriccia ma decide di andare avanti. Non è nuovo a questo tipo di imprese. Nel 1995, mentre scriveva dalla Bosnia, fu imprigionato per dieci giorni dalle autorità serbe. Fu il primo giornalista europeo a venire a conoscenza del massacro di Srebenica, dove furono uccisi settemila musulmani. In seguito a quell’evento, David si era riproposto, per amore della famiglia, di non mettere più a repentaglio la sua vita con azioni sconsiderate. Per tredici anni rispetta il voto poi arriva a Kabul.

Questo è il prologo di quello che sarà un lungo calvario, sette mesi di prigionia in una terra desolata, a cui metterà un termine solo una fuga sconsiderata quanto miracolosa.

Le prime notti i prigionieri restano in Afghanistan in una povera sistemazione. Gli danno cibo, nessuno viene picchiato. Poi, dopo una settimana vengono trasferiti.

A prelevarli è Atiquallah, il talebano che li ha assaliti sulla strada. Mentre la macchina corre sulla strada, David chiede il permesso di parlare. “Siamo più utili da vivi che da morti”,  dice. Il rapitore chiede dunque cosa potrebbe ottenere dalla loro liberazione.

David è disperato, vuole sopravvivere. Sa che nel 2007 il giornalista italiano Mastrogiacomo è stato lasciato grazie alla liberazione di cinque prigionieri talebani e sa anche che nello stesso anno il governo sudcoreano ha pagato un riscatto di 20 milioni di dollari per il rilascio di 21 missionari coreani. « Soldi e prigionieri » – dice. « Quanti soldi » – chiede Atiqullah. Un momento di esitazione, poi: «Milioni ». Ma già sa che rimpiangerà di averlo detto.

Dopo una settimana Atiqullah ritorna. Devono trasferirsi un’altra volta. In quest’occasione promette a David : « Non ti ucciderò ». E si mette a ridere, una risata senza allegria, priva di speranza. Poi si parte.

Il veicolo che li trasporta si ferma improvvisamente in una landa deserta. E’ il tramonto. Atiqullah annuncia che si deve proseguire a piedi attraverso le montagne. Una grande base americana blocca l’accesso diretto. Sotto una coltre stellata, la compagnia di rapitori e di ostaggi procede lentamente. Talebani emaciati portano pesanti macchine da guerra, senza accusare la fatica. Il loro coraggio e la loro resistenza sembrano sconfinati.

Nove ore dopo, mentre il solo riappare e l’escursione si avvicina alla fine, Asad si avvicina a David, e indica un punto all’orizzonte, sospirando: «Miram Shah », il nome della capitale Nord Waziristan, roccaforte di Al Quaeda e dei talebani nella cosiddetta area tribale del Pakistan. Se quella è la destinazione, il loro destino forse è già segnato.

Le altre puntate del racconto:

La trappola del talebano

Pakistani inefficienti

La farsa del video

Fuga dai talebani

Epilogo

Altro sulla vicenda del giornalista rapito dai talebani:

La notizia della fuga

Meglio il silenzio

Anche Wikipedia…