Rifugiati, scandalo Australia: li chiudono su un’isola: “Così fermati barconi”. Infermiera denuncia, licenziata

di redazione Blitz
Pubblicato il 22 Dicembre 2016 - 07:13 OLTRE 6 MESI FA
Rifugiati, scandalo Australia: li chiudono su un'isola: "Così fermati barconi". Infermiera denuncia, licenziata

Rifugiati, scandalo Australia: li chiudono su un’isola: “Così fermati barconi”. Infermiera denuncia, licenziata

SYDNEY – Profughi e rifugiati non sono graditi in Australia. Per dissuaderli li trattano così, li deportano in un’isola del Pacifico e ce li lasciano, dimenticati dal mondo. Il Governo australiano sostiene che così facendo hanno evitato l’assalto che sta subendo l’Italia, ma la coraggiosa denuncia di una infermiera, rilanciata da un famoso e battagliero giornalista del New York Times, Roger Cohen, ne ha fatto uno scandalo mondiale. Per premio, la infermiera è stata licenziata.

Dal 19 luglio 2013, l’Australia ha inviato più di 2 mila persone in cerca d’asilo politico lontano da occhi indiscreti, ovvero sulle isole di ManusNauru, fra Papua Nuova Guinea e Oceania della Micronesia. Il governo australiano, sostiene che queste misure drastiche siano necessarie per prevenire l’assalto del Paese. E così facendo ha “bloccato i barconi e i trafficanti indonesiani che si occupano del contrabbando”. Il governo è certo di aver prevenuto le migliaia di morti, come quelle del Mediterraneo, dove solo quest’anno sono annegate più di 4 mila persone.

Prima della decisione di deportare i rifugiati nel Pacifico, in Australia gli sbarchi di rifugiati erano costanti e numerosi, come in Italia. Il caso di Nayser Ahmed, un rifugiato dal Myanmar, Birmania, è un esempio doloroso del cambiamento. Nayser Ahmed ha 63 anni. Doveva partire per l’Australia, via Indonesia, insieme alla moglie e ai loro sei figli: quando però hanno cominciato a far salire le persone sull’autobus che li avrebbe portati al barcone, per Nayser non c’era più posto e rimase a terra. La sua famiglia raggiunse l’Australia prima dell’imposizione della politica “Manus e Nauru“, ed ora vive finalmente a Sidney. Ma per Nayser non è stato lo stesso. Ogni tentativo per rivedere la propria famiglia, da quando è giunto a Manus il 15 novembre 2013, è stato un fallimento.

Manus, informa Wikipedia,  è un’isola dell’Oceania, localizzata nel nord della Papua Nuova Guinea. È l’isola più grande delle Isole dell’Ammiragliato, e la quinta per dimensione di Papua Nuova Guinea con una superficie di circa 2.100 km². L’isola è coperta prevalentemente dalla giungla.

Il punto più alto è il Monte Dremsel con 718 metri sul livello del mare, localizzato nella parte centrale della costa meridionale. Manus è di origine vulcanica, emersa dalla superficie dell’oceano nel tardo Miocene, 8-10 milioni di anni fa. Manus ha una popolazione di circa 33.000 abitanti. Amministrativamente è un distretto della provincia di Manus e Lorengau, la capitale della provincia, si trova sull’isola.

Roger Cohen, c’è andato e racconta: “All’aeroporto, costruito dai giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale, un cartello dà il benvenuto “nell’isola paradisiaca, dove splende il sole”. Per chi va in vacanza, questa lingua di paradiso lunga circa 60 miglia è sicuramente un ricordo indimenticabile, ma per i 900 rifugiati in cerca di asilo politico, banditi dall’Australia e inviati in un angolo remoto della Papua Nuova Guinea, questo posto si è trasformato in un inferno. Tre anni e mezzo di crudeltà fisiche e psicologiche, condotte praticamente in assoluta segretezza sotto le verdi palme dei tropici.

A Lorengau incontro Benham Satah, un curdo fuggito dalle persecuzioni di Kermanshah, Iran. Detenuto sull’Isola di Natale dopo aver raggiunto l’Australia su un barcone, via Indonesia, Benham è stato costretto su un volo di sola andata per Manus, dove è stato lasciato a “svanire” dal 27 agosto 2013. Un limbo interminabile, ma tornare a casa potrebbe significare trovare la morte: i rifugiati non restano perché lo vogliono, ma perché non hanno altra scelta. Gli occhi di quest’uomo sono ormai vitrei, le gambe tremano. Un giovane uomo con una laurea in lingua inglese, divenuto ormai un senza nome, perché per gli ufficiali australiani, ormai, è solo un mero numero di registrazione: FRT009.

“A volte mi taglio” spiega “così riesco a vedere il sangue, che mi ricorda che sono vivo”. Reza Barati, suo ex compagno di stanza, è morto all’età di 23 anni il 17 febbraio 2014. Satah ha assistito all’uccisione dell’amico, un giocatore di pallavolo slanciato, morto sotto i colpi della folla locale, che era riuscita a scavalcare la recinzione della struttura d’accoglienza.

Nello scandalo dei rifugiati, si inserisce lo scandalo della infermiera. Racconta Roger Cohen:”Dall’inizio di questo programma, il cosiddetto “trattamento costiero”, più 2.000 persone sono state letteralmente “abbandonate” su queste remote isole del Pacifico, con l’Australia che ha fatto affidamento su contratti draconiani che consentissero l’assoluta segretezza delle brutalità”.

Questo mese, tuttavia, qualcuno ha rotto il silenzio. Racconta Roger Cohen:: Linne Elworthy, un’infermiera australiana impiegata nel settore della salute mentale di Manus Island, Papua Nuova Guinea, ha sfidato le clausole del suo contratto e una legge federale per dire che questa politica era un “esercizio di crudeltà assoluta”.

La Elworthy, come riferisce Roger Cohen, ha osservato per più di tre anni l’impatto che Manus ha su queste persone. Ha toccato con mano “i crolli” indotti da misure punitive come questa, ha assistito a rifugiati che perdevano la vita a causa di caos e negligenza medica, in quello che lei stessa chiama “pozzo senza vita”. Alla fine ha deciso di rompere il silenzio, perché “non c’è spazio nella mia testa o nel mio cuore per altri, tranne che per quei ragazzi su Manus”.

“Conosco i rischi che corro, e ne accetto le conseguenze. Ma è disgustoso come tutto ciò sia stato fatto”, ha commentato la donna. Dal luglio 2013, quelle persone inviate dall’Australia a Manus, hanno cominciato a degenerare, a crescere male, hanno portato avanti scioperi della fame, tentato più volte il suicidio; una manciata di loro è morta. Il governo australiano conservatore, guidato dal primo ministro Malcolm Turnbull, sostiene che la sua politica abbia “fermato i barconi”, e che l’Australia, altrimenti, sarebbe invasa.

La Elworthy in precedenza venne bandita da Manus per diversi mesi, per aver dato dei cioccolatini ad alcuni detenuti; le prigioni sulle isole di Manus e Nauru, orchestrate dall’Australia, non sono adatte per un’abitazione umana, tantomeno degne di una democrazia liberale firmataria di tutti i principali accordi internazionali sui diritti umani. Iracheni, iraniani, birmani, somali, sudanesi e tanti altri, tutti fuggiti da un inferno, alla ricerca di una nuova vita, per poi ritrovarsi catapultati in un altro inferno per 42 mesi, dovrebbero essere portati in Australia adesso.

Lynne Elworthy dovrebbe ricevere una delle più alte onorificenze civili australiane, avendo difeso i valori del proprio paese nei confronti di una politica che, invece, li ha trascinati in una palude tropicale. Questa donna ha alzato la voce quando altri hanno deciso di tacere. Nel 2014, Reza Barbati, un curdo iraniano, è stato ucciso nel centro di detenzione Manus. Nello stesso anno, un altro iraniano, Hamid Kehazaei, è morto per setticemia in Papua Nuova Guinea, dopo negligenza medica. I dottori non hanno trattato un taglio e Hamid è morto nel giro di pochi giorni. Nel 2016, Omid Masoumali, sempre iraniano, si è ucciso auto-immolandosi. Tutte morti perfettamente evitabili, avvenute sotto la responsabilità del governo australiano.