Terroristi assolti a Milano tenevano ostaggio Failla e Piano

di Mario Tafuri
Pubblicato il 13 Marzo 2016 - 11:57 OLTRE 6 MESI FA
Terroristi assolti a Milano tenevano ostaggio Failla e Piano

Terroristi assolti a Milano tenevano ostaggio Failla e Piano. Nella foto Abu Nassim, all’anagrafe Moez Ben Abdelkader Fezzani

ROMA – Terroristi per tutto il mondo, bravi ragazzi per la Giustizia italiana? Questa è l’impressione che si ricava a collegare le notizie diffuse in rete sui terroristi che hanno rapito i 4 tecnici italiani a Sabrata, in Libia, due dei quali Salvatore Failla e Fausto Piano, sono stati uccisi in circostanze ancora non chiarite.

Un nome domina, quello di  Abu Nassim, all’anagrafe Moez Ben Abdelkader Fezzani: era stato arrestato dagli americani, ceduto agli italiani, processato a Milano, assolto e scarcerato. Il suo nome emerge dal racconto di una donna, Wahida Bin Mokhtar Bin Ali, che ha affidato a 4 video postati su Facebook la sua testimonianza che è alla base delle ultime rivelazioni sulla morte di Salvatore Failla e Fausto Piano, riportate da Francesco Semprini sulla Stampa, di cui, riconosce Semprini,

“una menzione è stata data dalla trasmissione «Piazza pulita» di giovedì 10 marzo su La7”.

Prima di arrivare a quei tragici minuti, Wahida racconta la storia della sua vita, che l’ha portata in Libia dalla Tunisia, dove è nata. Il racconto è in arabo e è necessario affidarsi alla traduzione proposta da Semprini:

“Mi chiamo Wahida Bin Mokhtar Bin Ali, sono nata nel 1982, musulmana e tunisina. Sono venuta in Libia legalmente assieme a mio marito per lavorare. Ho una laurea in legge, a casa avevo poco lavoro e sono andata in Turchia, a Saral». Il marito le chiede di accompagnarlo in Siria, ma poi l’uomo, di cui non viene fatto il nome, alla fine varca il confine senza di lei, grazie all’aiuto di un gruppo che combatteva contro Assad. Poi «abbiamo deciso di andare in Libia, siamo arrivati a Tripoli, ci siamo fermati a Misurata, dove ho lavorato in un ospedale. In quei giorni mio marito riceveva sempre delle chiamate da Abu Nassim per lavoro».

Il personaggio in questione, avverte Semprini, è Moez Fezzani, leader della colonna jihadista di tunisini con passato italiano.  Di Moez Fazzani si è occupato nel luglio 2015, per il settimanale l’Espresso, Paolo Biondani: si tratta di

“un integralista tunisino che ha vissuto per anni a Milano, in via Paravia.  Inquisito fin dal 1997 per presunta complicità con il terrorismo internazionale, Abu Nassim era sfuggito all’arresto rifugiandosi tra il Pakistan e l’Afghanistan. Nel 2002 è stato catturato dalle truppe americane e rinchiuso nella prigione militare di Bagram. Nel 2009 è stato riconsegnato dagli Usa all’Italia insieme ad altri due tunisini già detenuti a Guantanamo.

“Ma al processo, nonostante la pesante requisitoria della procura di Milano, la Corte lo ha assolto e scarcerato. A quel punto il ministero dell’Interno lo ha espulso per motivi di sicurezza. Quindi nel 2012 Abu Nassim è tornato in Tunisia, libero”.

In Tunisia, Abu Nassim

“si è unito ai jihadisti: nell’autunno 2013 è andato a combattere in Siria con una brigata del cosiddetto Stato Islamico. E nel 2014 è ripartito per un’altra guerra civile, in Libia. Dove è diventato uno dei presunti responsabili di un campo di addestramento dei tagliagole del Califfato, localizzato nella zona di Sabratha. Una base che ora è sospettata anche di essere la fucina dei terroristi delle stragi in Tunisia”.

Qui si inserisce il racconto di Wahida. Lei il marito e il figlio si trasferiscono a Sabratha:

“Siamo stati a casa di Nassim. Era appena finito il ramadan”.

Era, nota Francesco Semprini, il 18 luglio 2015 un giorno prima del rapimento degli italiani. Ricorda Wahida:

“Ho chiesto alla moglie come facevano a essere così ricchi, lei mi ha risposto che suo marito lavorava con gli italiani”.

Forse, nota Semprini, si trattava di un eufemismo,

” un modo per dire e non dire quello che sarebbe avvenuto di lì a poco. Wahid ne ha sentore, tanto che cerca di separarsi dal marito, il quale però la minaccia e giura che se la sarebbe presa col figlio. Racconta Wahida:

“Sono rimasta a Sabratha con lui, abbiamo preso casa in affitto, diceva di fare il meccanico, ma tornava sempre pulito. Un giorno mi spiegò che stava lavorando sulla questione tunisina”.

Arriviamo al 19 febbraio 2016, quando gli americani bombardano Sabratha. Qui è utile leggere la ricostruzione di Daniele Raineri per il Foglio il 3 marzo 2016.

“Il raid ha costretto le forze locali a cominciare un repulisti, considerate anche le voci imminenti di intervento internazionale. “E anche dopo c’è stato qualche tentennamento: i superstiti del raid americano sono stati portati in ospedale e non sono stati arrestati. Impossibile che fino a quel giorno nessuno si fosse accorto di quella presenza, piuttosto si era scelto di fare finta di nulla”. E’ stato creato un Centro di comando per la lotta allo Stato islamico, che ha cominciato una sequenza di retate e raid contro le cellule locali del gruppo. Il primo marzo la milizia ha fatto irruzione in un nascondiglio utilizzato per la costruzione delle bombe. Due giorni fa ha intercettato la cellula dello Stato islamico che custodiva due dei quattro rapiti italiani – non è ancora chiaro cosa è successo. Dalle foto e dalla didascalia che il Centro di comando ha caricato poche ore dopo l’attacco sulla sua pagina Facebook sembra che abbiano ucciso la maggior parte del gruppo in uno scontro a fuoco, senza nemmeno rendersi conto che c’erano due ostaggi”.

Dopo il raid americano, prosegue Semprini,

“le milizie di Tripoli, dichiarano guerra alla colonna filo-Isis di Nassim, ne seguono scontri drammatici per giorni, la situazione precipita. Gli jhihadisti decidono di serrare le fila, si riuniscono in una casa dove arriva Wahida, è il covo dove sono tenuti i quattro italiani:

«C’erano tante persone, alle donne non era dato sapere chi fossero».

Lo capisce il mattino quando un convoglio di almeno due vetture, una nera e una grigia, si dirige verso il Sahara. A guidare le operazioni è Abdullah Dabbashi, detto Haftar, emissario Isis.

«C’erano gli ostaggi italiani, e i rapitori ripetevano che la strada doveva essere sgombra».

Secondo la donna Haftar voleva portare via tutti e quattro gli italiani, ma poi ha desistito: con loro però c’è una sacca con una somma di denaro, il riscatto probabilmente.

“Da lì è un alternarsi di soste passando per Zaouia, sino ad arrivare al ground zero del bombardamento Usa, il covo di Noureddine Chouchane, «il terrorista di Novara» ucciso nel raid.

«Davanti a me c’era la macchina con gli italiani. Ci siamo fermati e sono scesi per mangiare. A questo punto sono arrivati i ribelli è iniziato uno scontro a fuoco.

Il mio gruppo ha tentato di scendere a patti con loro, urlando

“Scendiamo a patti, abbiamo gli italiani”»,

ma non ci hanno dato retta e hanno ripreso a sparare,

«Hanno colpito mio figlio all’addome».

Il racconto della donna si fa confuso, ciò che ne emerge è uno scontro pesantissimo, alla fine solo sangue e cadaveri, tra questi i corpi di Salvatore Failla e Fausto Piano. Chi li abbia uccisi è da appurare: forse i rapitori per agevolare la fuga, o le milizie determinate a impossessarsi dei soldi senza lasciare testimoni”.

Per completare il quadro, un articolo di Libero del 4 marzo 2016:

“Da tempo l’Italia aveva avviato una trattativa per liberare i quattro ostaggi italiani rapiti otto mesi fa in Libia, compresi i due tecnici, Failla e Piano, tragicamente uccisi in una sparatoria, probabilmente usati come scudi umani dai loro aguzzini. Secondo il Giorno, i servizi italiani hanno ricostruito che i quattro sono stati rapiti lo scorso luglio da un gruppo di banditi dediti ai sequestri, dentro il quale c’era anche qualche membro radicale islamico. Con questo gruppo sono rimasti fino allo scroso febbraio, quando il gruppo di ex Ansar al Sharia guidato da Abdullah Dabbashi, colonna dell’Isis a Sabrata, è entrato nella trattativa con l’Italia, di fatto strappando gli ostaggi ai rapitori. Attraverso la ditta dei tecnici, la Bonatti, i servizi italiani hanno trovato un canale di contatto attraverso membri di una tribù locale”.

La richiesta di riscatto iniziale era “di almeno 12 milioni di euro [… ma il passaggio dai rapitori ai nuovi aguzzini più radicali ha complicato la trattativa, facendo impennare la cifra chiesta come riscatto.

A peggiorare le cose c’è stato il raid americano del 19 febraio. […] A quel punto gli ostaggi sono stati divisi in due gruppi e usati come scudi umani per proteggere le case dei leader della colonna jihadista, sono partiti raid di risposta a quello americano, attaccando i militari dell’esercito fedele a Tripoli. Non è stato neanche escluso il piano di un blitz che provasse a liberare i quattro italiani, ma il bombardamento americano ha stravolto il già fragile equilibrio della zona occidentale libica”.