Benzina cala, Arabi contro il mondo: Usa, Russia e anche Iran, Iraq, Nigeria

di Sergio Carli
Pubblicato il 29 Novembre 2014 - 10:13 OLTRE 6 MESI FA
Benzina cala, petrolio a 70$, grazie a Arabi contro Usa, Russia, Islam

Ali al Naimi, ministro del petrolio della Arabia Saudita

MILANO – Scende il prezzo del petrolio nel mondo, si scatena la rissa fra produttori, si delineano scenari da romanzo di fantapolitica, ma per i poveri consumatori potrebbe venire una ventata di respiro, se al primo ribasso annunciato venerdì dall’Eni altri ne seguiranno, mentre per le agonizzanti economie in recessione, come in Italia, sarebbe una boccata d’ossigeno, pur in mezzo ai rischi di deflazione.

Le grandi menti della finanza mondiale cercano di capire se la mossa dell’Arabia Saudita di mantenere il calo del prezzo del petrolio in calo ormai da mesi costituisca un atto di guerra finanziaria contro i russi o contro gli americani o magari contro il resto del mondo islamico.

Gli effetti a Wall Street, dove si trova la Borsa di New York, sono stati pesanti. Nella giornata di venerdì Exxon, primo gruppo mondiale dell’energia, ha perso 16,8 miliardi di dollari di capitalizzazione, tutte assieme, le principali compagnie petrolifere  hanno bruciato oltre cento miliardi di capitalizzazione. 

Ma è anche vero, come spiega Milano Finanza, che col

“petrolio, a 70 $ cambia il mondo”

e per la gente comune, parola di Peter Dragicevich, strategist di Commonwealth Bank of Australia,

“la caduta dei prezzi del petrolio significa una caduta dei prezzi della benzina e del costo dei trasporti e dovrebbe essere quindi trattata come un taglio delle tasse per i consumatori”.

Il commento di Milano Milano Finanza, riferisce che

“Ed Morse, capo della ricerca sulle commodity di Citigroup il mese scorso aveva calcolato che un Brent a 80 dollari al barile è l’equivalente di un taglio alle tasse di 600 dollari all’anno per una famiglia americana proprietaria di un’automobile, figuriamoci che vantaggio si avrebbe se i prezzi si fissassero intorno ai 71,76 dollari al barile registrati venerdì 28 novembre. Una vera e propria manna per i consumatori Usa”.

Ma lo stesso si potrebbe dire dell’Italia, se le compagnie petrolifere continuassero l’azione avviata da Eni:

“Con i prezzi del petrolio crollati di oltre il 30% dal mese di giugno, invece, finalmente arriva davvero qualcosa anche nelle tasche della gente comune, i cui risparmi sulla benzina potrebbero essere utilizzati per altri consumi, magari superflui, dando così la spinta necessaria a rendere davvero solida e sostenibile la ripresa”.

Cerchiamo di capire cosa è successo, attraverso la interpretazione di Federico Fubini su Repubblica. La Opec,

“il vecchio cartello di Paesi che garantisce il 40% del greggio prodotto nel mondo ha deciso di non agire. Di fronte a un eccesso di produzione mondiale che il Venezuela stima in due milioni di barili al giorno, non ha tagliato neppure di mezzo milione. Senz’altro il primo responsabile della scelta è stato Ali Al-Naimi, ministro del petrolio dell’Arabia Saudita e, come tale, mente e voce del primo produttore del pianeta, che da solo vale circa 12 milioni di barili al giorno (ma ne estrae solo 9).

Sulla domanda di energia si sta facendo sentire la frenata dell’economia europea, quella della Cina e la svolta americana: la rivoluzione del “fracking”, il gas e il petrolio estratti dalla roccia di scisto, avvicina ormai gli Stati Uniti all’obiettivo dell’autosufficienza nell’energia. Se questi sono i fatti, non sono così univoci da mettere d’accordo chi li osserva da New York, Washington o dalla capitali europee. […]

Nella scelta dell’Opec di non procedere a un taglio, alcuni vedono un favore saudita all’alleato americano contro la Russia di Vladimir Putin. Senz’altro per Mosca la caduta del greggio è un problema più intrattabile di quanto non sia per Ryadh, il Kuwait o per Abu Dhabi, il più potente dei sette Emirati Arabi Uniti. Putin ha ormai bisogno di un prezzo sopra ai cento dollari al barile per garantire la stabilità della sua economia e del sistema finanziario.

Il crollo del rublo, il cui valore si è quasi dimezzato in pochi mesi, aumenta in modo esponenziale il peso di quei debiti. Solo l’anno prossimo rimborsi per 130 miliardi attendono le aziende russe, gli introiti da petrolio non bastano a finanziare le loro scadenze e qualcuno si trova in difficoltà […e] la scelta saudita di non far muovere l’Opec non può che aggravare le difficoltà degli oligarchi russi e mettere Putin sempre più con le spalle al muro”. 

Qualcuno sospetta il contrario, che si tratti di una mossa contro gli americani, che mira

“a mettere fuori mercato parte della nuova concorrenza statunitense. A seconda degli impianti, gli idrocarburi estratti dalla roccia di scisto in America producono redditi a prezzi fra i 40 e i 115 dollari. Per i sauditi, tenere il greggio a 70 significa sperare di spiazzare parte della nuova produzione americana. La stessa estrazione di greggio dalle sabbie bituminose in Canada, sostenibile solo a 80 dollari, finirebbe per costare centinaia di miliardi di perdite alle compagnie occidentali che vi hanno investito. Così l’Opec con i prezzi bassi spera di rallentare lo sviluppo della nuova generazione di tecnologie occidentali che stanno rendendo il vecchio cartello sempre meno decisivo.

Se fosse davvero così, conclude Federico Fubini, l’instabilità generata dal crollo del prezzo del petrolio

“rischia di scaricarsi su Paesi produttori come l’Iran del programma nucleare, la Nigeria dove nascono ogni anno più bambini che nell’intera Unione europea o l’Iraq assediato dall’Isis hanno bisogno che il greggio torni a 100 dollari. Sotto, manca loro l’ossigeno finanziario. Così il barile somiglia sempre più a un ordigno che deve rotolare davanti alla porta di casa di qualcun altro”.