Ilva, padella o brace: chiuderla costa 10 miliardi, pulirla cinque

Pubblicato il 27 Settembre 2012 - 16:52 OLTRE 6 MESI FA
Taranto e le ciminiere dell’Ilva sullo sfondo (LaPresse)

TARANTO – Una “condanna” che, diversamente da quello che è successo con il caso Sallusti, non può essere sospesa: per il Gip di Taranto Patrizia Todisco l’Ilva di Taranto deve chiudere e non potrà riaprire finché non sarà risanata. A differenza di Sallusti, l’Ilva è recidiva, perché da anni ignora o aggira gli accordi per inquinare di meno, ed è pericolosa socialmente: andare a Taranto a fare qualche respiro profondo per credere.

Ma se è vero che l’Ilva è “pericolosa” aperta, è vero che lo è ancora di più chiusa: per 12.859 lavoratori più altri tremila impiegati nelle 188 imprese dell’indotto, i sigilli allo stabilimento siderurgico significa andare a respirare a pieni polmoni l’aria non così benefica della disoccupazione.

Questo succederà se nessun atto del governo fermerà l’esecuzione della sentenza dei giudici di Taranto, in cui si boccia il piano di risanamento da 400 milioni proposto dall’azienda, si dice “no” al mantenimento di una “minima capacità produttiva” nei forni e altiforni destinati alla chiusura, e si rigetta anche l’istanza di rimessione in libertà di Emilio e Nicola Riva e Luigi Capogrosso, che restano agli arresti domiciliari. Così si dovrà procedere secondo il dispositivo del verdetto:

Dismissione e bonifica delle aree relative alle batterie 1 e 2;
spegnimento dei forni relativi alle batterie 3-4, 5-6, 9-10 e 11 e loro rifacimento;
adeguamento delle batterie 7-8 e 12; rifacimento delle torri di spegnimento 1, 3, 4, 5, 6 e 7.
Interventi anche sulla movimentazione del carbon fossile.
Dismissione e bonifica dell’altoforno 3 o il suo completo rifacimento;
lo spegnimento e il completo rifacimento degli altiforni 1 e 5;
adeguamenti (captazione emissioni e depolverazione) anche per gli altiforni 1, 2 e 5;
interventi anche nel cuore dello stabilimento, con adeguamento del sistema di depolverazione secondaria e desolforazione della ghisa in siviera nell’acciaieria 1 Des Nord;
interventi strutturali in acciaieria 2 e desolforazione della ghisa in siviera Des Sud e Des Nord

Quello che nella sentenza non viene chiarito è che la chiusura di questi forni, altiforni e acciaierie provoca un infarto alla produzione dal quale l’impianto non potrà più riprendersi, a meno che non intervenga un defibrillatore statale quantificabile in decine di miliardi da investire per rianimare l’Ilva.

E cosa succede se il Gip Todisco otterrà quanto ha stabilito in 15 pagine di decreto? Un disastro economico quantificato dal ministro allo Sviluppo Corrado Passera. Un disastro che supera i confini di Taranto e della Puglia, epicentro di un dramma occupazionale di fronte al quale è difficile pensare alla riconversione come soluzione immediata. Fanno “8 miliardi di euro all’anno, imputabili per circa 6 miliardi alla crescita delle importazioni di acciaio, per 1,2 al sostegno al reddito ed ai minori introiti per l’amministrazione pubblica e per circa 500 milioni in termini di minore capacità di spesa per il territorio direttamente interessato”.

Il sistema siderurgico italiano collasserebbe: l’impianto di Taranto, uno dei poli dell’acciaio in Europa, è il più importante in Italia. Per il gruppo Riva diverrebbe insostenibile mantenere aperto quello di Genova, che si regge sugli introiti di quello di Taranto. In un momento di crisi europea e in particolare italiana dell’industria, il nostro Paese dovrebbe rinunciare alla produzione di acciaio, trovandosi costretti a importarlo. Con l’acciaio, per esempio, si fanno le macchine. E finché la Fiat rimarrà in Italia, ne avrà tanto bisogno.

Un disastro: la politica industriale può deciderla un giudice? Dovrebbe deciderla il governo nazionale, che però su Taranto ha traccheggiato parecchio negli ultimi trent’anni. Al momento la situazione sembra senza via d’uscita, e va detto che l’Ilva, il gruppo Riva, ci hanno messo molto del loro, presentando un piano che secondo il Gip di Taranto è “assolutamente inadeguato”:

“Non può non rilevarsi con grande amarezza come tutti gli interventi proposti da Ilva siano esattamente quelli facenti parte di due atti d’intesa adottati tra l’Ilva, Regione Puglia, Comune di Taranto, Comune di Statte e organizzazioni sindacali l’8.01.2003 e il 27.02.2004 e molti di essi dovevano già essere realizzati da diversi anni”.

E se da una parte il Gip Todisco afferma che

“non c’è spazio per proposte al ribasso da parte dell’Ilva circa gli interventi da svolgere e le somme da stanziare. I beni in gioco, salute, vita ed ambiente, ma anche diritto ad un lavoro dignitoso e non pregiudizievole per la salute, la sicurezza e la libertà di alcun essere umano, lavoratore compreso, non ammettono mercanteggiamenti”

Dall’altra si dovrà pur cercare di uscire dallo scacco: gli interventi di risanamento da fare sono stati valutati in 4-5 miliardi. L’azienda ha presentato un piano da 400 milioni. Forse può mettere sul piatto un altro miliardo, ma si mancherebbero ancora 2-3 miliardi all’appello. Due-tre miliardi per non mettere una pietra tombale sulla siderurgia italiana. Due-tre miliardi per continuare a sperare in un futuro per l’industria in Italia.