Pensioni senza pace. Futuro rischio nuovi tagli, zero crescita Pil e occupazione

di redazione Blitz
Pubblicato il 3 Agosto 2014 - 13:58| Aggiornato il 4 Agosto 2014 OLTRE 6 MESI FA
Pensioni senza pace. Futuro rischio nuovi tagli, zero crescita Pil e occupazione

Pensioni senza pace. Futuro rischio nuovi tagli, zero crescita Pil e occupazione

ROMA – I pensionati non hanno pace e le loro pensioni sono sempre nel mirino di qualche burocrate killer. Nonostante l’annuncio del ministro del Lavoro Giuliano Poletti di voler avviare un procedimento per creare una sorta di paracadute per mandare in pensione i disoccupati con più di 55 anni, i pensionati restano la categoria più umiliata e tartassata fra gli italiani e ora, avverte Luca Cifoni sul Messaggero, c’è un rischio per le loro future pensioni:

“La legge Fornero-Monti approvata nel 2011 è stata la sesta riforma della previdenza in Italia nell’arco di quindici anni e nelle intenzioni di chi l’ha voluta doveva essere quella definitiva. Oggi quel complesso edificio normativo inizia ad essere scalfito da eccezioni e salvaguardie, ma i numeri dicono piuttosto chiaramente che il riassetto deciso dal governo Monti sull’onda dell’emergenza finanziaria avrà effetti duraturi nel tempo, assicurando la sostenibilità della spesa previdenziale e più in generale delle finanze pubbliche.

“In base al modello previsionale dell’Inps, anche tenendo conto delle tutele previste per i cosiddetti esodati, la spesa prevista per le quattro principali gestioni dell’istituto si ridurrà di oltre 80 miliardi nel solo decennio 2012-2021, grazie ai requisiti più stringenti previsti dalla riforma.  Vanno nella stessa direzione le stime della Ragioneria generale dello Stato, che prendono in considerazione la spesa pensionistica complessiva.

“In totale le riforme approvate dal 2004 in poi (quindi la cosiddetta Maroni-Tremonti, l’introduzione dell’uscita legata all’aspettativa di vita, e infine appunto la legge Fornero) hanno prodotto risparmi pari a sessanta punti di Pil cumulati, fino al 2050. Di questi, circa un terzo deriva dalle sole norme del 2011. L’effetto è crescente nel tempo a partire dal 2012 e toccherà il livello massimo nel 2020, con una minore spesa pari all’1,4 per cento del Pil, ossia a oltre 25 miliardi”.

Tutto a posto quindi? si chiese Luca Cifoni e con lui milioni di pensionati. La risposta è da brivido:

“Fino a un certo punto. E il nodo sta proprio nel sistema di calcolo contributivo. La logica con cui è stata concepita non solo la legge Fornero, che ha disposto l’applicazione di questo schema pro rata su tutte le pensioni dal 2012 in poi, ma anche la stessa riforma Dini del 1995 che lo ha avviato seppur gradualmente, era quella di un’economia comunque in crescita pur se con alti e bassi legati al ciclo. E soprattutto di un’economia in grado di generare occupazione ragionevolmente stabile”.

Visto che le cose non sembrano andare così e

“con un sistema previdenziale pubblico che resta a ripartizione (chi è al lavoro paga con i propri contributi le pensioni di chi è a riposo) si rischia uno squilibrio crescente tra le pensioni assicurate agli anziani di oggi e quelle a cui potranno puntare gli anziani di domani, ovvero gli attuali giovani”.

Le previsioni della Ragioneria generale dello Stato

“sui tassi di sostituzione (il rapporto percentuale tra la prima pensione e l’ultimo reddito da lavoro) evidenziano per i lavoratori dipendenti una discesa dall’attuale 70 per cento (ipotizzando 36 anni di contribuzione) al 58 per cento nel 2035-2040. Per i lavoratori autonomi (che hanno versamenti contributivi più bassi) va anche peggio perché il tasso è previsto crollare al 54,4 per cento già nel 2015 per poi scendere fino al 43 per cento. Sono dati già di per sé non molto confortanti, ma suppongono una carriera lavorativa di almeno 36 anni, e sono basati inoltre su uno scenario economico che – pur se prudente – con le lenti dell’attualità potrebbe apparire addirittura ottimistico: una crescita del Pil reale pari a circa l’1,5 per cento medio annuo e tassi di occupazione superiori a quelli attuali”.

Roberto Giovannini su La Stampa avverte:

L’obiettivo del governo – che però è difficilmente praticabile – in realtà è molto più ambizioso. Anche sotto la pressione di larga parte del Pd, dei sindacati ma anche di tante medie e grandi aziende, se fosse possibile l’Esecutivo vorrebbe trovare un modo per accelerare la cosiddetta «staffetta generazionale» tra lavoratori più anziani e giovani nel settore privato. Ovvero, consentire ai tanti lavoratori attivi che hanno accumulato molti contributi ma hanno solo 60-62 anni di età di andare in pensione. E liberare posti per le assunzioni di giovani, che costerebbero meno e renderebbero di più anche ai loro datori di lavoro.

Il problema – come al solito – è quello dei costi. Un ostacolo difficilmente superabile. Un modo per aggirarlo potrebbe essere quello di stabilire delle penalizzazioni monetarie. Così come chi resiste sul posto di lavoro fino a 70 anni riceve in base alla legge una pensione maggiorata, si potrebbe imporre una «multa a vita» sull’importo dell’assegno per chi volesse andare via prima, multa correlata all’età anagrafica a partire dai 62 anni in su.