Pirelli/ Vittorio Malacalza, il socio genovese di Piacenza

di Franco Manzitti
Pubblicato il 15 Giugno 2009 - 10:02| Aggiornato il 24 Agosto 2015 OLTRE 6 MESI FA

Vittorio Malacalza, 69 anni, neo socio di Pirelli nella sua cassaforte di famiglia, la Camfin, con un 3,5 per cento che può diventare 25 per cento entro l’anno, consolidando così la seconda posizione nel capitale della finanziaria,  non è considerato affatto un genovese doc. Intanto viene da Bobbio, Piacenza, vecchia sede arcivescovile dove un tempo regnava anche il cardinale di Genova Giuseppe Siri.

A Genova, Vittorio Malacalza non  lo considerano neppure come uno degli esponenti di quella borghesia imprenditoriale sempre più rarefatta e, comunque, fedele a se stessa nei connotati di riservatezza, understatment, zero visibilità ed esercizio del maniman  (modo di dire dialettale per riassumere fatalismo e pessimismo).

A Bobbio, torna appena può, in una splendida villa di campagna. Da Bobbio è partito nella sua irrompente scalata economica da perfetto self made man, categoria che fa storcere il naso nei salotti della Genova che più o meno conta ancora.

Sono quegli stessi salotti che, non più tardi di sette mesi fa, gli hanno affibbiato uno schiaffo di quelli che non si dimenticano. Dopo una terribile guerra di successione alla poltrona di presidente di Confindustria Genova, nella quale l’establishment locale si era azzuffato come mai nella storia, la candidatura di un uomo come Malacalza, potente finanziariamente come nessuno sotto la Lanterna, grazie al miliardo e un milione di euro incassati vendendo agli ucraini della Metinvest  le sue floride attività siderurgiche della Trametal, era stata respinta seccamente.

Al suo posto i genovesi avevano scelto il trentasettenne Giovanni Calvini, rampollo di una famiglia genovese doc (parentela Costa della nobile e decaduta dinastia armatoriale), con azienda importatrice di frutta secca. Quello schiaffo era il risultato dell’ennesima lotta intestina tra imprenditori, mica tanto diversa da quella epocale tra Fieschi e Doria.

Da una parte il fronte del porto: i terminalisti e gli industriali delle riparazioni navali come Bisagno, Messina, Negri e dall’altra il solitario Riccardo Garrone, il petroliere, presidente della Sampdoria, che voleva imporre una soluzione diversa da quella portualistica. Malacalza si era reso disponibile. Aveva venduto Trametal,diventando l’imprenditore più liquido di Genova, aveva affidato il resto delle sue cospicue e redditizie attività di import export siderurgico (una joint venture con i cinesi di Shangai Baosteel), di elettromeccanica hi-tech (Asg, ex Ansaldo Superconduttori) e di biomedicale ai suoi due figli maschi Mattia e Davide, svegli e motivati.

Aveva piazzato una pedina nel mondo dei mass media comprando insieme a Garrone il 40 per cento della testata genovese Corriere Mercantile (il restante 40 per cento è della Stampa e il residuo 20 per cento della Cooperativa giornalisti e tipografi, salvatrice del giornale). Aveva addirittura cercato, Vittorio Malacalza, di comprare in società con Flavio Repetto, padrone di Elah Dufour, Novi, Baratti, il Genoa Calcio, prima del travolgente arrivo di Enrico Preziosi.

Insomma Malacalza aveva provato a piazzarsi nel cuore secco dell’imprenditoria genovese, forte di talento, capitali e capacità di rischio. Perfino si era alleato con il gruppo Messina per costruire nell’entroterra savonese un laminatoio nella area dell’ex Ferrania, storica azienda del territorio ligure. Anche questa era andata buca per i dissidi esplosi con gli armatori, oramai mezzi riconvertiti a Genova in una cavalcante attività immobiliare. La famiglia Malacalza restava, insomma a zero titoli, malgrado la sua potenza economica, custodita, secondo leggende metropolitane, nei forzieri di una delle riservatissime banche genovesi.

Si sapeva che il Malacalza stava esaminando decine e decine di dossier per investire bene il suo capitale, costruito in una vita senza mai sbagliare un colpo. Da timido commerciante di acciaio a socio del mitico Bruno Bolfo nella Duferco, che porta via il mercato a Lucchini e cerca di comprare, prima di Riva, l’Italsider di Genova.

Poteva stare tranquillo l’imprenditore che tra gli anni Ottanta e Novanta si era incamerato Trametal, Spartan Uk, Mag Steel e che aveva trasformato Ansaldo Conduttori in un gioiellino? Si poteva accontentare dello scopone nella trattoria Europa, cuore ombelicale di Genova, sfidando Spinelli, il console dei camalli la buonanima Battini, il presidente della Regione Burlando e lo stesso Garrone? Gli poteva bastare il buen retiro nella villa di Bobbio o il restauro faraonico della grande dimora del Settecento acquistata e ricostruita nel quartiere snob di Albaro? O era sufficiente distrarsi sul superyacht “Mai domo” ormeggiato a Santa Margherita?

No, a Malacanza, sornione nel suo ufficio della decadente city genovese, settimo piano del grattacielo di Piccapietra dove un tempo regnavano i supermanager di Italimpianti, serviva il colpo. Così è entrato nel salotto milanese dove porterà non solo le decine di milioni della sua partecipazione a Camfin, ma l’esperienza accumulata nei business dell’energia e i rapporti veramente d’acciaio con Cina e Russia, fondamentali per Pirelli. Alla faccia dei genovesi.