Studio: essere religiosi aiuta a sopravvivere ai trapianti

Pubblicato il 13 Agosto 2010 - 00:15 OLTRE 6 MESI FA

Essere religiosi aiuta a sopravvivere: lo dimostra, dati alla mano, lo studio italiano condotto su 179 pazienti che hanno subito un trapianto di fegato e seguiti per quattro anni dal gruppo dell’Istituto di di fisiologia clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pisa (Ifc-Cnr), in collaborazione con il dipartimento di Trapiantologia epatica dell’università di Pisa.

Dalla ricerca, pubblicata sulla rivista Liver Transplantation, risulta che, fra i pazienti che hanno affrontato la malattia profondamente convinti che la fede li avrebbe aiutati, il 93,4% è sopravvissuto (la mortalità è stata quindi del 6,6%), mentre tra coloro che non lo hanno fatto la sopravvivenza è stata pari al 79,5% (con una mortalità del 20,5%, tripla rispetto a quella del primo gruppo di pazienti).

Per il responsabile della ricerca, lo psicologo Franco Bonaguidi, la differenza fra i due gruppi ”è statisticamente notevole, mentre la probabilità di ‘falso positivo’, cioè che sia stata rilevata una differenza inesistente, è del 2,6%, nettamente inferiore alla soglia convenzionale del 5%”.

A fare la differenza, secondo i ricercatori, è la religiosità vissuta in modo attivo, ossia intesa come ”cercare attivamente l’aiuto di Dio”.Un atteggiamento, spiega lo psicologo, che ”non si identifica con una religione confessionale, ma che è un aspetto intimo della personalità che porta a vedere l’incontro con la malattia grave come un momento di rielaborazione della propria esistenza, dei propri valori e di rivalutazione della componente spirituale e trascendente”.

Per individuare i pazienti con un atteggiamento simile, ai 179 considerati nell’indagine (sottoposti al trapianto fra il 2004 e il 2007), è stato chiesto di compilare un questionario sulla religiosità. L’atteggiamento nei confronti della fede è stato considerato insieme ad altri fattori, come età di ricevente e donatore, sesso, livello di istruzione e occupazione, tipo e gravità della malattia, caratteristiche dell’intervento chirurgico.

L’analisi delle risposte ”ha permesso di evidenziare, con una procedura matematica, le principali componenti della religiosità, definite come ricerca ‘attiva’ di Dio, attesa ‘passiva’ di Dio e generico atteggiamento fatalistico”. E’ emerso così, conclude lo psicologo, che ”le uniche variabili in grado di predire la mortalità dei pazienti dopo il trapianto sono la durata della degenza in terapia intensiva e, come fattore negativo, l’assenza di ricerca di Dio, con un rischio relativo rispettivamente di 1,05 e 3,01”.