Cina: chiusa per rivolta la fabbrica dell’iPhone5, dove è vietato il suicidio

Pubblicato il 25 Settembre 2012 - 11:54 OLTRE 6 MESI FA

Le immagini della rivolta (Ap/LaPresse)

ROMA – Il 24 settembre 2012 lo stabilimento Foxconn cinese a Taiyuan è rimasto chiuso. Un solo giorno ma, nonostante censure e depistaggi, l’insurrezione operaia ha prodotto uno stop. La fornitura di iPhone5 non ha subito contraccolpi, il committente Apple per ora può stare tranquillo anche se alla Borsa di New York non è sfuggito il dettaglio della prima interruzione di una catena di montaggio del nord est povero cinese. Non era mai successo: il piccolo cartello rosso all’entrata della fabbrica che indica lo stop è l’inizio di un processo che può mettere in crisi l’intero modello del capitalismo comunista che ha permesso alal Cina di diventare in pochi anni la seconda economia del mondo.

Ma a che prezzo lo stiamo capendo solo adesso, almeno in Occidente, troppo preoccupati di mantenere il livello di consumi cui decenni di crescita ci hanno abituati per accorgersi che gli schiavi del terzo millennio non ce la fanno più a sfornare a ritmi infernali e a bassissimo costo i nostri preziosi gadget elettronici. La terza generazione di operai non accetta più di morire alla catena di montaggio: per Pechino e per il partito alla vigilia del congresso che nominerà la leadership dei prossimi dieci anni è uno shock imprevisto. Per la Foxconn, il terzista più grande del mondo, la conferma che deve continuare a spostarsi, a delocalizzare, sempre a caccia di manodopera silente e impermeabile a intrusioni sindacali e men che meno a diritti anche elementari.

Chiuso per rivolta. La fabbrica fortezza di Tiyuan “ospita” 80 mila operai. In realtà vi sono segregati per 51 settimane all’anno. Domenica scorsa alle 23 è stata teatro di una battaglia durata 10 ore. 5 mila soldati sono serviti per sedare la rivolta. Le autorità si sono giocati la carta delle dispute etniche, tra gente dello Shandong e dello Henan. Il sito Weibo.com ha fatto filtrare ciò che già si sapeva: una sommossa dei dipendenti contro le guardie aziendali di Foxconn. Queste avevano picchiato a morte un operaio rifiutatosi di fare il servizio notturno. Parliamo di un clima aziendale dove sono obbligatorie 80 ore di straordinario mensile, pena servizio punitivo alle latrine. Parliamo di modelli contrattuali , quelli della Foxconn, che prevede clausole come il divieto di suicidio, altrimenti è la famiglia dell’assunto a rimetterci.

Il bilancio della rivolta è stato quindi di un morto e una cinquantina di feriti e centinaia di arresti. E lo stop della fabbrica, come da cartello rosso all’ingresso dello stabilimento. Sciopero punitivo dice Foxconn. La quale ha già investito 500 milioni di dollari per un altro stabilimento in Brasile. Nel mondo impiega un milione e trecentomila dipendenti. Sforna a ritmi infernali componenti elettronici e hardware non solo per Apple, ma anche per Ericsson, Nokia, Hewlwett & Packard ecc.. Giuseppe Visetti, corrispondente a Pechino di Repubblica cita un economista della Business School di Shenzhen per illustrare la filosofia seguita dal colosso taiwanese Foxconn: “Vaporizzare la produzione rafforza la proprietà. Se sei mobile e ovunque, operai e sindacati sono morti. E’ la globalizzazione ai tempi della crisi: lavora chi si adegua, gli affari perdono ogni valore sociale e le copndizioni, anche in assenza di profitti, vengono decise dal management”.

Ma il grande Partito Comunista potrà reggere a questo modello di sfruttamento? Già ora dovrà pensare a qualche aumento salariale per incentivare i consumi interni. Pagherà con livelli meno sostenuti di crescita e con l’inevitabile innalzamento dei prezzi dei prodotti con cui inonda il mercato globale. Dovrà affrontare la inevitabile robotizazione annunciata dall’ineffabile Foxconn per la quale era presentabile uno slogan come “i robot non si buttano dal tetto, se danno problemi basta spegnerli”.

Per descrivere il mutamento improvviso di un continente convertito all’industrializzazione forzata servirebbe lo sguardo di un Dickens tra la miseria, la fatica, la fame che spinge ad arraffare un lavoro che se non ti ammazza ti spinge al suicidio. O forse un più appropriato Engels, compagno di Manifesto con Marx e che gli eredi di Deng Xiao Ping che aprì la Cina al mercato e che lavorò da giovane alla Renault, potrebbero non aver dimenticato. “La situazione della classe operaia in …Cina” e non nell’Inghilterra di metà Ottocento. “La vittoria del lavoro a macchina sul lavoro a mano nei principali rami dell’industria inglese era ormai decisa e tutta la storia di quest’ultima ci racconta come da allora i lavoratori furono cacciati da una posizione dopo l’altra a opera delle macchine. Le conseguenze furono, da una parte, la rapida caduta dei prezzi di tutti i manufatti, la fioritura del commercio e dell’industria, la conquista di quasi tutti i mercati esteri non protetti, la rapida crescita dei capitali e della ricchezza nazionale; dall’altra, un ancor più rapido aumento dei proletariato, la distruzione di ogni proprietà e di sicurezza di lavoro per la classe operaia….” scriveva Engels.