Caster Semenya: le origini dell’atleta “più discussa”

Pubblicato il 13 Gennaio 2010 - 15:41| Aggiornato il 17 Gennaio 2010 OLTRE 6 MESI FA

Caster Semeya, l’atleta sudafricana diciottenne che l’estate scorsa ai mondiali di atletica di Berlino vinse il titolo negli 800 metri, è ancora nel limbo degli esami che devono accertare la sua appartenenza sessuale: è una donna? È un uomo? È un ermafrodito? Può continuare a correre con le donne?

La sua vicenda è sospesa nella nebbia degli organismi sportivi internazionali, dove, non solo nell’atletica, la certezza del diritto in un caso come questo si impasta con più complesse considerazioni: certo non aiuta che Semeya sia una ragazza nera che viene da un villaggio sperduto del Sud Africa e che intorno a lei siano scatenati i giochi e gli interessi, politici e economici) dei sud africani non bianchi ( cioè neri e “colorati”) del post apartheid.

Ancora negli ultimi giorni intorno al suo nome si è accesa la polemica, perché il suo allenatore, Michael Seme, ha detto che avrebbe continuato a correre nelle gare femminili in Sud Africa, ma subito gli organismi federali sudafricani gli sono saltati in testa, definendo incaute le sue parole e inibendo a Caster di gareggiare fino a quando le supreme autorità internazionali dell’atletica non si pronunceranno.

Quando? Nessuno lo sa, anche se le Olimpiadi sono ormai domani e comunque i soloni che stanno in Europa giocano con il destino e i sentimenti di una ragazza di 18 anni.

Ve la ricordate Caster Semenya? Quando vinse gli 800 metri ai mondiali di Berlino,in realtà, più che per la prestazione, l’evento fu memorabile per quello che successo dopo. All’indomani della vittoria cominciarono a piovere strane insinuazioni su la ragazza. Le stesse atlete che con lei avevano gareggiato lanciarono in pubblica piazza il terribile interrogativo: e se la Semenya non fosse una donna?

E allora apriti cielo. Ne cominciò una querelle, a tratti grottesca, sulla condizione ormonale, fisica, atletica della ragazza (o ragazzo?) e sulle ripercussioni di questa da un punto di vista filosofico, politico, femminista. Il Sun, quotidiano noto per le sue posizioni scandalistiche, rivelò che l’atleta era in realtà un’ermafrodita. La federazione mondiale di Atletica stabilì in fretta e furia nuove misure per l’accertamento del sesso dei concorrenti. Di che far gongolare i profeti dei gender studies.

Il problema è che la vicenda di Semeya è intimamente intrecciata con le cicatrici del razzismo nell’animo collettivo e individuale della maggioranza non bianca del Sud Africa e così quello che altrove sarebbe un semplice caso di attribuzione di sesso assume i tratti di un ritorno alle vecchie leggi della separazione razziale.

A proposito di Caster Semeya c’è anche chi riesuma, come parallela vicenda di razzismo, la storia di Saartjie Bartman, nota come la Venere ottentotta in Europa, dove fu portata, come un trofeo, nel 1810, all’età di 21 anni, e dove morì, in Francia, cinque anni dopo, prostituta e alcolizzata. Era stata esibita davanti a schiere di pittori, naturalisti e presumibilmente maniaci travestiti da scienziati, tutti attratti dal suo sedere fuori ordinanza e da labbra vaginali eccezionalmente grande e protese. Il suo scheletro e i suoi genitali furono conservati fino al 1974 al Museo dell’uomo di Parigi e ora, scrive Ariel Levy sul New Yorker, “molti in Sud Africa hanno la sensazione che i bianchi non sud africani stiano ancora scrutando un corpo femminile nero come se non contenesse un essere umano”.

Anche l’atteggiamento assunto dalle autorità internazionali dell’atletica, in fondo, suona sinistro in questo angolo dell’Africa: e se fosse successo a una del Massachusetts? Ci sarebbe lo stesso atteggiamento altezzoso? Il comportamento delle autorità atletiche sudafricane, inoltre, non risente un po’ anch’esso di un complesso di inferiorità, magari intrecciato con l’0pportunismo di qualche piccolo boss locale che vuole fare carriera nel partito del presidente Zuma.

Non aiuta il fatto che la vicenda di Semeya abbia le sue radici in una delle zone più povere del paese, e anche del mondo, dove se una bambina nasce con il clitoride troppo lungo glielo tagliano; dove si verifica una elevata concentrazione di nati o nate che possono presentare tratti incerti di identità sessuale; dove, come dice un’amica di Caster Semeya, “ per definire se una è donna basta che faccia pipì seduta”, dove non c’è spazio per scelte sessuali diverse come essere lesbica. A farlo si rischia lo stupro educativo.

Non aiuta che le vicende sessuali siano ammantate dall’amore della riservatezza e del perbenismo, dal timore dello scandalo, che, causa anche l’ignoranza del poverissimo ambiente in cui è nata, non ha certo aiutato Caster e i suoi allenatori a avere idee più chiare. Caster non ha seno, non ha le mestruazioni, ma questo, spiegano gli esperti di atletica, non vuole dire molto, perché pare che altre ragazze sottoposte alla intensa tensione agonistica e all’immenso sforzo di preparazione dell’atletica non ne abbiano. Si porta l’esempio di Maria Mutola, del Mozambico, idolo di Caster Semeya, anche lei dall’aspetto fortemente mascolino.

Fin da quando ha cominciato a vincere le rivali e i loro allenatori e genitori hanno cominciato a seminare dubbi sulla femminilità di Caster Semeya, la quale si è abituata, fin da giovanissima, a farsi accompagnare da un “testimone” al bagno per mostrare con i propri genitali che tutto è in regola.

La storia si è complicata con la vittoria di Berlino, perché questa ha proiettato la ragazza sulla grande piattaforma mondiale, come possibile candidata all’oro olimpico. Qui sono entrati in ballo, al di là delle apparenze dei genitali, i livelli di testosterone. E sono anche entrate in ballo le deficienze, le ingenuità, le debolezze dei responsabili dell’atletica sud africana che hanno comunque mandato Caster Semeya a correre in Germania, accettando preventivamente, ma senza dirglielo, di sottoporla all’esame sulla sessualità di cui ancora nulla si sa, almeno ufficialmente, anche se in Australia sono già uscite indiscrezioni secondo le quali Caster sarebbe, nel migliore dei casi, un ermafrodito, categoria peraltro non contemplata dalle tabelle internazionali.

Anche qui entrano in ballo le questioni razziali. Sostengono a Johannesburg: certo, le voci partono dall’Australia, perché lì c’è un altra concentrazione di razzisti bianchi, emigrati dopo la fine dell’appartheid, che mai hanno perdonato ai neri di avere conquistato la libertà.

Recentemente, il New Yorker, che è giornale di altra caratura rispetto ai cugini di campagna del Sun, propone un bel reportage sul retroterra culturale della Semenya. E « retroterra » non è parola scelta a caso, perché rimanda a un mondo al di fuori, dietro, dopo l’ultima stazione di ferrovia. Un mondo di frontiera come il « Cristo si è fermato a Eboli » del libro di Carlo Levi.

Quando in Sud Africa le gente dice « Limpopo », si vuole dire la terra del nulla. Non parlano di una condizione metafisica o della contea di un libro fantasy, bensì di una regione ben definita nelle carte geografiche, la zona nel nord del paese che fa da frontiera col Botswana, lo Zimbabwe e il Mozambico. Qui di macchine non se ne vedono e l’acqua corrente e l’elettricità sono lussi che non si hanno. Ed è qui che in condizioni di rara precarietà si allenano i membri del Moletjie Athletics Club, club di cui Caster Semenya ha fatto parte fino ad un anno fa.

Gli atleti del club vivono tutti nei villaggi in case di fango, mattoni e lamiere. Per arrivare agli allenamenti devono camminare a lungo attraverso i campi di grano, incrociando le capre e gli asini che brucano l’erba e che padroneggiano questi sentieri non asfaltati. Davanti ad una scuola li aspetta ogni volta il loro allenatore Jeremiah Mokaba che precisa: «In questo periodo gli allenamenti si possono fare perché la stagione della pioggia è passata». Non esistono infatti strutture coperte.

Mokaba allena i suoi allievi nella boscaglia coperta di rovi che si distende dietro il sentiero e che va lontano verso le montagne. Gli atleti corrono a pieni nudi e spesso vengono feriti dalle spine. Un giovane ragazzo spiega la situazione: «Non possiamo fermarci e dire che non abbiamo scarpe perché non abbiamo soldi. I nostri genitori non hanno soldi. Allora che possiamo fare? Continuiamo a correre».

Joyce ha diciotto anni ma sembra molto più giovane. È magra, avvolta in una felpa rosa e nemmeno lei ha perso la speranza. «Voglio diventare campione del mondo – dice con una voce soffice, quasi un sospiro – Diventerò campione del mondo. Caster mi ha reso orgogliosa. Lei ha vinto. Lei ha mostrato il nostro club sulla mappa».