Babel, Ezio Mauro e Zygmunt Bauman: crisi della democrazia e società liquida

di Daniela Lauria
Pubblicato il 3 Giugno 2015 - 07:57 OLTRE 6 MESI FA
Babel, Ezio Mauro e Zygmunt Bauman: crisi della democrazia e società liquida

Babel, Ezio Mauro e Zygmunt Bauman: crisi della democrazia e società liquida

ROMA – Siamo esseri “solitari interconnessi” che navigano a vista tra le atroci sofferenze dell’indeterminatezza, in una “società liquida” e postideologica. E’ questa l’infausta lezione del dialogo intessuto tra il direttore di Repubblica Ezio Mauro e il sociologo polacco Zygmunt Bauman, confluita nel libro intitolato Babel (Laterza 2015, pp. 160). Un confronto serrato e appassionato tra due acuti osservatori che si interrogano sulla crisi, detonata sul piano economico e finanziario e poi deflagrata a livello politico, istituzionale e dunque culturale.

L’ambizioso dialogo muove dai temi già affrontati in passato da Bauman nella sua celebre “saga” della modernità liquida. Secondo la concezione di Bauman, rispetto all’epoca precedente, quella che chiama società produttiva solida, siamo approdati ad una società liquida, cioè labile perché segnata da strutture che si vanno decomponendo e ricomponendo in modo fluido e perciò incerto. Nella società liquida assistiamo inermi all’inevitabile perdita di ogni riferimento e, in definitiva, alla trasformazione del nostro stesso io in un’entità duttile, adattabile, anch’essa liquida. Detto in altri termini, con l’uscita dalla modernità di stampo sette e ottocentesco e il contestuale smaterializzarsi dei riferimenti della produzione solida, il cittadino si sente smarrito, insicuro, privato della prospettiva di un futuro.

E’ cogliendo questa cesura che Ezio Mauro definisce il nostro come “il tempo indecifrabile dell’interregno” in cui la crisi ci ha colti come un esercito invisibile nel sonno, attraversando e svuotando quell’impalcatura materiale e istituzionale che l’Occidente si è faticosamente dato dal dopoguerra per preservare l’umana coesistenza: la democrazia. La crisi si è depositata come ruggine negli interstizi del processo democratico: laddove lo Stato si faceva garante della sicurezza dei propri cittadini, in cambio della cessione di una porzione di libertà, ora rischia di sfaldarsi sotto i colpi di una crisi che morde la carne viva delle persone. Scrive Mauro:

“Noi avevamo consegnato allo Stato il monopolio della forza appunto perché ci difendesse come individui e come insieme, e attraverso il libero gioco della politica avevamo costruito un percorso di legittimazione di quel potere. Se il meccanismo si blocca, lo Stato si arrende alla crisi, l’economia finanziaria si dimostra una variabile indipendente, il lavoro diventa un bene precario e non uno strumento di costruzione di sé in rapporto con gli altri, allora salta anche il mio ruolo di cittadino, il vincolo di interdipendenza tra il singolo e il potere pubblico”.

Il risultato di tale cortocircuito, per Mauro, è appunto il disincanto per la democrazia e il disamore che ormai intercorre tra Stato e cittadino, membri di un matrimonio malato, costretti a stare insieme pur se nella reciproca indifferenza. Bauman conferma e rilancia indicando nella distanza tra elettori ed eletti, cioè nella crisi della rappresentanza, la misura di questa frustrazione. Il voto diviene sparuto momento di partecipazione alla vita pubblica ma sminuito e depotenziato:

“Nella migliore delle ipotesi si recano alle urne per scegliere il male minore. Per una grande maggioranza di cittadini, l’idea di contribuire a indirizzare il corso degli eventi nella giusta direzione (una possibilità che in passato aveva reso di solito la democrazia così attraente e aveva dato vigore all’attiva partecipazione alle procedure democratiche) raramente, o forse mai, è ora considerata credibile e a portata di mano”.

Ne consegue che “la democrazia ci ha traditi”, sentenzia Ezio Mauro. Ed è qui che i due interlocutori entrano nel vivo della discussione. Se per il giornalista il segno dei tempi è da ricercarsi nella crescita incessante della disuguaglianza sociale, per il sociologo la cifra dell’epoca sta invece nella contraddizione tra fissità e mobilità, che è a sua volta il prodotto della separazione unilaterale tra capitale e lavoro. Nella fase solida venditori e acquirenti di lavoro erano stretti in un tacito patto di interdipendenza. Era interesse del capitalista garantire un equo sostentamento alla forza lavoro locale e gestirne le complesse esigenze. Ma nel momento in cui il capitale finanziario ha preso il posto del capitale industriale come principale motore di distribuzione della ricchezza, questo patto che costituiva un limite naturale alla diseguaglianza sociale è venuto unilateralmente a mancare. Mobilità di capitali significa libertà di spostarli in più verdi e floridi pascoli e affrancarsi da eventuali “ricatti” della forza lavoro che un tempo potevano inficiare il comune processo di produzione. Libertà dinanzi alla quale non c’è sciopero o sindacato che tenga.

Critica al capitalismo finanziario dunque che, lungi dal voler assurgere a concetto anti-sistema e senza scomodare i vari teorici di Zuccotti Park, è sentire assai diffuso. Già negli anni sessanta, in tempi non sospetti, Ernesto Rossi si scagliava contro i grandi filibustieri della finanza, paragonandoli a dei pirati: responsabili secondo lui di sottrarre ingenti fette di reddito dall’economia reale per trarne profitti fulminei e gratuiti in Borsa. Guadagni senza merito che hanno generato nei decenni una crescente sfiducia nel sistema democratico, aumentando gli squilibri sociali, che minano la libertà in cui tutti viviamo.

In questo passaggio, osserva Wlodek Goldkorn sul settimanale l’Espresso, il marxista eretico si scontra con l’azionista democratico. Bauman è un ex comunista ebreo sfuggito al socialismo reale in patria. La sua analisi è innanzitutto una critica alla società dei consumi e l’esclusione sociale da lui elaborata non si basa tanto sull’alienazione al sistema produttivo o sul non poter comprare l’essenziale, ma sul non poter comprare per sentirsi parte della modernità.

Non a caso per Bauman il processo che, più di ogni altro, ha agito come forza propulsiva di trasformazione della società è la globalizzazione e l’imprescindibile standardizzazione dei gusti e dei valori che l’accompagna. Ma che nulla ha a che vedere con l’uomo marcusiano a una dimensione: nella società liquida l’omogeneizzazione conduce al contrario alla dissoluzione di quei ben delineati confini che permettevano la salda identificazione dell’io con valori stabiliti e bisogni definiti.

Goldkorn ci spiega che i concetti chiave ai quali si appella Ezio Mauro sono invece quelli di responsabilità e coesione sociale, tipici dell’azionismo piemontese:

“Come tutti i veri radicali (valga l’esempio di Bobbio) è cosciente dell’antinomia tra i due valori fondanti della modernità: uguaglianza e libertà. E come tutti i veri radicali pensa che non occorre sceglierne uno a scapito dell’altro, ma che ambedue possono convivere, pur nella loro intrinseca contraddizione, a patto che le élite abbiano chiara l’idea della responsabilità (concetto chiave dell’azionismo) e che la società sia coesa. Da qui la sua preoccupazione per la crescente povertà, per le disuguaglianze”

Ci sia concesso precisare che libertà e uguaglianza, per dirla con Bobbio, non sono antitetiche bensì consequenziali. Nella costruzione delle moderne liberaldemocrazie l’una precede l’altra. La libertà liberale che è libertà dall‘ingerenza dello Stato nella sfera privata dai cittadini, precede e non esclude la libertà democratica che è libertà di prendere parte attivamente alla cosa pubblica.

Al di là delle etichette entrambi, Mauro e Bauman, sono comunque concordi nel ritenere che un tempo la sicurezza, compito precipuo dell’autorità statale, aveva un significato differente. Se al giorno d’oggi lo Stato si limita a garantire protezione dai nemici esterni e dunque difesa dal terrorismo, dalla criminalità ecc., in passato sicurezza voleva dire certezza: il cittadino sapeva che impegnandosi nel proprio lavoro avrebbe conquistato un proprio posto stabile nella società e il diritto a una vita dignitosa. E lo Stato in questo senso si faceva garante, assicurando l’incontro regolare tra capitale e lavoro.

Con la flessibilità si è creato invece un gap: il cittadino non sente più di avere un suo spazio e significato nel contesto sociale in cui vive. E’ Bauman a sottolineare il nesso: “I posti di lavoro si sono trasformati da fabbriche di solidarietà a fabbriche di sospetto e competizione”. E un lavoratore flessibile “non ha più ragioni per amare la sua occupazione come succedeva un tempo, in fondo non gli conviene”.

Mauro approfondisce: “Si sta smaterializzando la vecchia accezione di sicurezza economica e materiale, e scopriamo che senza la libertà materiale non c’è una vera libertà politica”. Senza lavoro, insomma, si perde in dignità e si viene respinti ai margini del vivere comune. In questo momento, ed è un passaggio particolarmente duro del direttore di Repubblica, la democrazia discrimina i non garantiti dai garantiti: chi è tagliato fuori, ridotto ai margini del vivere sociale resta pur sempre un cittadino, ma soltanto per la richiesta di un voto, di una risposta a un sondaggio, dell’acquisto di qualche bene. Ma in definitiva, “che io voti o non voti le mie condizioni di vita non cambiano: la posta in gioco ormai è troppo bassa. Il nostro disinteresse nei confronti delle istituzioni è ricambiato”.

In un’epoca come quella odierna, in cui nulla è solido attorno a noi e la perdita di ogni valido sistema referenziale ha condotto al dilagare dell’incertezza, non ci sono più spiriti costituenti, ideologie in grado di selezionare un pensiero vincente. E’ in questo spazio che si fanno strada i neopopulismi affascinando masse deluse e disperse. Momenti di “solidarietà esplosiva”, secondo Bauman, ma destinati a perire. Per Norberto Bobbio, ci ricorda Mauro, l’antipolitica altro non è che un illusorio deposito di forza che in realtà è sterile perché non in grado di produrre governo. “Non ci sono infatti movimenti politici che avendo messo in crisi il vecchio mondo siano oggi pronti a ereditarlo”.

E questo accade perché l’opinione pubblica è in crisi. Con l’avvento di Internet si è prodotta la più sconvolgente dilatazione spaziale e al contempo un’inedita compressione temporale. L’immanenza del tempo presente in rete che determina il costante vivere nell’hic et nunc ha, chiaramente, ripercussioni anche sul modo in cui gli individui comunicano. In questo tempo acrono, si domanda Ezio Mauro, o “tempo puntinista” come lo ha definito Bauman, può mai formarsi un’opinione pubblica?

“Qui e ora, l’impressione prende il posto dell’opinione. Diventa cioè qualcosa di percepito, ma non elaborato perché non c’è tempo, non organizzato perché non c’è modo. […] Il giudizio diventa una sensazione. Immediata, magari. Ma non impegnativa, non durevole, non costitutiva di un’identità culturale, di una posizione a cui far riferimento. Il giudizio è un processo, la sensazione è un attimo“.

Avevamo paura di essere da soli, poi Facebook ha eliminato la solitudine. Ecco perché secondo Bauman siamo “solitari interconnessi“. In realtà il qui ed ora è precipitato in un vortice ancor più indecifrabile del “non più” e “non ancora”, spiega Mauro. Anche il linguaggio ha perso coerenza ed è incapace di dare senso al mondo. E il risultato è una Babele di lingue che si sovrappongono, di notizie che si auto sostituiscono ancor prima di produrre un’idea.

Ma se nella società liquida l’individuo è un cittadino spogliato della sua cittadinanza reale, ridotto a spettatore/consumatore che cede volentieri il passo alla “disattenzione civile” (Bauman). “Con la responsabilità demandata alla tecnica – incalza Mauro – se ne va un pezzo del nostro sistema cognitivo”. E qui il sociologo concede molto al professionista della comunicazione:

“La tecnologia – scrive Bauman – non fa avanzare la democrazia e i diritti umani per te (e al posto tuo). E’ un po’ come volersi scrollare di dosso la propria responsabilità civica di farli avanzare. Credo che, paradossalmente, sia proprio la promessa esplicita o implicita di liberarsi di quella responsabilità (certamente impegnativa e ingombrante) l’attrazione di giocare al gioco politico online”.

Come se ne esce? Il libro scritto a quattro mani da Bauman e Mauro non pretende certo di dispensare miracolose ricette per il futuro. E’ una lunga e articolata riflessione che, come è stato ampiamente argomentato, è merce rara al giorno d’oggi. Non è neppure un trattato apocalittico che radica l’uomo contemporaneo nell’errore e nel caos. Anzi, entrambi gli autori vedono brillare la speranza all’orizzonte.

Se è vero che, in una rivisitazione dell’assunto cartesiano, dal Cogito ergo sum siamo passati al Consumo dunque sono (titolo di una eloquente opera di Bauman) e poi al Digito ergo sum, dobbiamo ora affidarci al Dubito ergo sum. È il caso che l’individuo contemporaneo ritrovi la sua capacità di critica e di riflessione. “Se muniti dell’arma del dubbio – osserva Mauro in conclusione – possiamo governare la seduzione esercitata dagli evidenti benefici della modernità”. Possiamo scegliere.