Cancro: chemio, radio non basta senza volontà di vivere e…

di Marco Benedetto
Pubblicato il 4 Febbraio 2016 - 17:16 OLTRE 6 MESI FA
Cancro, Mimmo Candito l'ha vinto con "55 vasche"

Cancro. “55 vasche”, autobiografia di Mimmo Candito, inviato di guerra de La Stampa, sulla sua guerra al cancro, vinta anche grazie alla volontà di vivere

GENOVA – La guerra col cancro di Mimmo Candito è durata 10 anni. Dopo averla vinta, ha mandato agli amici un sms degno di Armando Diaz. Ancora lo conservo. Poi Candito, di mestiere inviato di guerra de la Stampa di Torino, l’ha raccontata in un libro avvincente come un “thriller” e coinvolgente come un libro di memorie ben riuscito. Lo si legge con interesse crescente, le ultime 100 pagine vorresti non interromperle, ti appassioni, ti commuovi. Parla di cancro ma non ti angoscia, anzi ti esalta, ti trascina, ti fa amare la vita un po’ di più o, se vuoi, lamentarti un po’ di meno.

L’impatto della voglia di vivere contro il predominio della morte trasformano un libro totalmente e espressamente autobiografico, al limite della auto-agiografia, in una lezione di vita scandita senza esitazioni o inciampi, in uno stile terso.

Mimmo Candito ha intitolato il libro “55 Vasche”. Nel sottotitolo la chiave: “Le guerre, il cancro e quella forza dentro”. Perché 55 sono le volte ha nuotato su e giù per una piscina nello sforzo titanico di sottomettere alla propria volontà un corpo ridotto ai minimi termini da un cancro che si era piazzato e era cresciuto attaccato alla aorta, proprio vicino al cuore.

Nelle ultime pagine il ritmo del thriller lo assume davvero, quando porta il lettore a individuare, come possibile causa del suo cancro – per lui che non ha mai fumato e ha vissuto con la paranoia dell’atleta – la stessa causa che ha portato la morte a migliaia di militari americani e anche italiani. Si chiama uranio impoverito, titanio, tungsteno, ossido di zirconio.

Ti ci porta passo passo, non subito, quando ormai il racconto sembra finito, dopo avere raccontato, per due terzi delle pagine, quei primi giorni attorno al 2005, in cui un medico del Mount Sinai gli dice che è spacciato. Non ci sono date precise, ma il riferimento all’uragano Katrina lo colloca in quel momento.

Il racconto invece non conosce pausa, fino alla fine, alla ricaduta di alcuni anni fa, che Mimmo Candito affronta con la certezza del veterano che sa di vincere ancora e sa che la vera vittoria non è la guarigione, perché il destino di tutti resta comunque segnato, la vera vittoria è su noi stessi, le nostre paure, le nostre viltà, quel poco o tanto di Lord Jim che è in noi e che giustamente Mimmo Candito porta ad archetipo della nostra voglia di abbandono, di quieto vivere. Spesso siamo Lord Jim senza la voglia di riscatto.

Fu quello il momento di svolta della guerra al cancro che Mimmo Candito condusse da solo contro le zero probabilità di vita che l’oncologo gli aveva dato. Fu la vittoria della volontà sul male, fu anche la vittoria che progresso tecnologico e medicina segnarono all’ospedale Mount Sinai di Miami.

Credo sia il più bel libro e anche il più bell’articolo che Mimmo Candito ha scritto, essenziale, asciutto, liberato dalle emozioni e dalla retorica.

Prima di andare avanti in questa sintesi, premetto che conosco Mimmo Candito da mezzo secolo e gli voglio bene come se ne può volere solo agli amici del primo quarto della nostra vita. Siamo opposti in quasi tutto, dalla statura alle idee politiche (o lo eravamo) o meglio alle conclusioni che traevamo da una analisi condivisa della realtà. I dati di partenza non possono non essere condivisi, se l’analisi è onesta. Il giudizio è come il risultato della lettura di un libro. Le parole che leggiamo sono le stesse, quel che ne segue va per tutte le strade.

Nelle righe che seguono mi dilungo in un Amarcord giustificato dal sentimento e anche dal desiderio di presentare meglio libro e autore. Chi non volesse perdere tempo a leggerle sappia solo che “55 vasche” è un libro che merita di essere comprato e letto.

Ho visto Mimmo Candito la prima volta nel 1965 nelle retrovie del Consiglio comunale di Genova. Alto, magrissimo, sempre in movimento, parlava a voce alta. Lo stimava molto Tullio Cicciarelli, personaggio autorevole, colto, saggio, incommensurabilmente più di me, editorialista del Lavoro, il quotidiano socialista di Genova allora diretto da Sandro Pertini, futuro Presidente della Repubblica. Mimmo Candito faceva il cronista per il Lavoro. Era arrivato a Genova da poco, lui, i due fratelli e la madre Palma, bellissima e severa vedova di un ex maresciallo dei carabinieri. Io, appena presa la maturità, coprivo tutti i buchi al Cittadino.

Mimmo fece il salto di rango poco dopo. Mi è rimasto impresso un articolo di Candito, dedicato a “Quelle magliette a righe” che gli fecero scrivere il 30 giugno di quell’anno, ricorrenza della rivolta dei portuali che fece cadere il Governo Tambroni appoggiato dal Msi. Oggi, volendo leggere la storia di quegli anni con gli occhiali della guerra fredda, si possono dire cose un po’ diverse, ma a quei tempi l’antifascismo era mito, anzi dogma.

Fu il suo calore umano a travolgermi e avvolgermi. Diventammo amici.
Dovendo scrivere del libro di Candito e non la mia autobiografia, mi limiterò a aggiungere che poco dopo passai all’ agenzia Ansa, mentre, nel 1970 Mimmo passò alla Stampa, a Torino. Il nuovo direttore Alberto Ronchey stava arruolando una legione straniera di giornalisti dalla provincia del Nord Italia, Verona, Venezia, Genova, Bologna.

Forse voleva attenuare la torinesità della vecchia redazione ma fu un errore, perché innestò nella redazione dei corpi estranei alla città e alla sua cultura, di fatto sradicati a causa degli orari del giornale, dove si andava a cena quando i torinesi erano già al secondo sonno. Da Genova partirono Mimmo e Sandro Casazza e per un po’ a Genova non si parlò d’altro. Li scelsero dopo avere letto i loro articoli, entrambi erano e sono buoni scrittori, non solo oggi, nel confronto con i tanti analfabeti con cui la scuola italiana ci ha invaso, ma anche allora, in tempi che non è accorto mitizzare.

Mimmo Candito andò agli Esteri, Sandro Casazza agli spettacoli. Parliamo di anni in cui gli esteri occupavano una sola paginetta, proprio come oggi; gli spettacoli erano alla vigilia del grande balzo in avanti.

L’impatto con Torino fu duro, forse anche perché ogni settimana Mimmo e Sandro prendevano il treno per ritornare dalla mamma e respirare l’aria di mare. Non avevano bisogno di Paolo Conte per capire.

Ogni lunedì alle cinque, Mimmo entrava nello stanzone della redazione della Stampa, in cui convivevano i desk di politica nazionale, cronaca nazionale, economia, spettacoli, esteri tutti sotto l’attento controllo di Tino Neirotti, uno dei più bravi redattore capo che ho visto. Entrava avvolto in un tabarro nero, i sandali ai piedi e gridava: “A Genova c’è il sole” per poi andare a prendere posto accanto a Roberto Franchini, il suo capo. Gli facevano leggere Le Monde, il Times e la Frankfurter Allgemaine Zeitung da cui estrarre esattamente dodici righe di giornale raccolte sotto il titolo “le citazioni”.

Mimmo Candito conosceva il tedesco perché appena finito il liceo, a Reggio Calabria, aveva passato l’estate in Germania a lavorare come operaio. Lo racconta anche nelle ultime pagine del libro ed è un racconto intenso, illuminante, commovente.

Erano gli anni della rivoluzione permanente in Italia e i giornali non ne furono risparmiati. Dopo Ronchey a dirigere la Stampa l’avvocato Agnelli scelse Arrigo Levi che credo provi ancora dei brividi ripensando ai suoi 7 anni in via Marenco a Torino.
Fu forse per tenerlo lontano dalla redazione, dove facevano più assemblee che titoli di giornale, che nominarono Mimmo Candito inviato speciale dai fronti più lontani.

Fu una scelta fortunata e in questi oltre 40 anni Candito ha dato alla Stampa più di quanto abbia avuto, come impegno professionale, scrupolo, passione, a livello del migliore giornalismo internazionale.

Non sono tanti, in Italia ma anche ne, mondo, i giornalisti che si infilano nei carri armati, si mescolano fra i soldati, non “embedded” ma come fastidiosi intrufoloni. Ce ne sono pochi a ogni generazione. Di quella prima di noi ricordo Ettore Mo e Bernardo Valli, che ancora a 85 anni dà lezione di mestiere e di incoscienza. Di quando avevamo vent’anni ricordo il mito di Egisto Corradi.

La maggior parte dei giornalisti preferiscono il comfort delle piscine e dei bar dei grandi alberghi. Mi colpì, per non parlar male solo degli italiani, l’inviato del Daily Telegraph a Genova 50 anni fa. Tutti eravamo in caccia di un comandante italiano che aveva mandato la sua petroliera a incagliarsi davanti a Los Angeles. Io becco sotto un letto un grande quanto incontrollabile fotoreporter dell’Ansa, Dino Nazzaro. Dov’era il grande inviato inglese? Al bar dell’hotel Colombia, ubriaco. Aspettava i nostri racconti.

I ricordi di guerra sono uno dei due filoni su cui si sviluppa il racconto di “55 Vasche”. Si alternano con un buon ritmo la guerra al cancro i ricordi di guerra del grande reporter. Grande per l’impegno e la cura professionali, grande per il coraggio al limite della incoscienza.

“Ne valeva la pena?”, si chiede Candito e mi chiedo anche io. Valeva per i suoi bravi lettori piemontesi, per il giornale e per le copie che comunque inesorabilmente ha perso, valeva per i direttori che, eccettuato forse l’ultimo, che però è un gran furbone e sa come si tratta la gente, non credo l’abbiano mai amato, valeva per la proprietà, nei cui parametri cortigiani certo Mimmo Candito non rientrava?
Credo proprio di no.

Ma ne valeva la pena lo stesso perché quello che conta sei tu, col tuo lavoro, con la tua follia, con la tua etica. Nel rapporto con te stesso, col tuo lavoro fatto al meglio, sono la soddisfazione è il premio. “Il lavoro paga sempre” diceva Giorgio Fattori, il direttore della Stampa che Candito cita nel libro. Fattori non amava Candito, erano opposti in tutto, ma lo rispettava. Alla stessa conclusione arrivano le ultime pagine di “55 Vasche”.