I carabinieri di Dalla Chiesa ricordano: poteva finire prima

Pubblicato il 22 Dicembre 2015 - 08:01 OLTRE 6 MESI FA
I carabinieri di Dalla Chiesa ricordano: poteva finire prima

La bandiera italiana, la sciabola e il berretto da generale di Carlo Alberto Dalla Chiesa sul feretro del generale durante i funerali celebrati a Milano il 5 settembre 1982. (ANSA)
ORICO

ROMA – Dalla Chiesa, i suoi Carabinieri ricordano. “Tutti gli uomini del generale” si intitola un nuovo libro sugli anni di piombo scritto da Fabiola Paterniti, dedicato ai carabinieri che attorno al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa diedero colpi decisivi al terrorismo rosso in Italia.

Il terrorismo finì, fra altre cause, anche quando lo Stato dimostrò che non era più tempo di esitazioni e questo avvenne, a opera di Dalla Chiesa, a Genova, nel covo di via Fracchia, nel rione collinare di Oregina. Il 28 marzo 1980, quattro terroristi morirono e quello fu un punto di svolta. Pochi mesi prima c’erano stati i licenziamenti alla Fiat di Torino di 61 operai in odore di vicinanza alle Br, 7 mesi dopo ci sarebbe stata a Torino la marcia dei 40 mila impiegati e dirigenti contro la deriva estremista dei sindacati e l’ambiguità del Pci. Il Pci, peraltro, 5 mesi prima, aveva cominciato a capire che il terrorismo era un cancro, non un raffreddore, quando a Genova fu ucciso dai terroristi un sindacalista della Cgil, Guido Rossa.

Il libro di Fabiola Paterniti non è una rievocazione retorica né nostalgica, piuttosto la constatazione di quanto sia difficile fare qualcosa in Italia, anche combattere il terrorismo. Il libro di Fabiola Paterniti, scrive Cesare Martinetti sulla Stampa, non

“è un lamento qualunquista, piuttosto l’amarezza dei soldati che sono stati in prima linea e hanno visto progressivamente smontata da burocrati e politicanti una squadra che si è sentita colpita dagli stessi proiettili che hanno poi ucciso Dalla Chiesa a Palermo”.

Carlo Aberto Dalla Chiesa fu, nel ricordo di un ex, Domenico Di Petrillo, detto “Baffo” ,

“abbandonato non dallo Stato, perché io credo nello Stato, ma da mascalzoni investiti di responsabilità pubbliche”.

Sottile distinzione, difficile da capire, che solo può fare un tenace e irremobile servitore dello Stato.

Dalla Chiesa, emerge dal libro,

“non era solo l’inventore e il capo del Nucleo Speciale, ma ne era insieme l’anima e il corpo, vista la dedizione fisica con cui ci lavorava, giorno e notte. I suoi uomini non solo lo rispettavano, ma lo veneravano. E quando si incontravano, dopo il saluto militare d’ordinanza, alla stretta di mano, guardandosi negli occhi, alcuni sussurravano con dedizione totale: «Mio generale…»”.

Il libro di Fabiola Paterniti è

“un pezzo di storia inedita della lotta al terrorismo, edito dall’editore Melampo”

lo definisce Cesare Martinetti, allora giovane cronista della Gazzetta del Popolo, oggi editorialista della Stampa di Torino.

Il generale Gian Paolo Sechi, giovane capitano in quegli anni, rimpiange che

“avremmo potuto radere al suolo l’organizzazione allora, ma non ci fu consentito. Un errore che ha pesato sulla storia d’Italia”.

L’incontro dell’autrice con il generale Sechi è stato, riferisce Giovanna Guzzetti su Affari Italiani, è stato

“la molla che ha portato alla stesura del libro”.

Il Nucleo anti terrorismo formato dal generale Dalla Chiesa fu sciolto dopo poco tempo. Gian Carlo Caselli, negli anni di piombo giudice istruttore a Torino, fu molto vicino a Dalla Chiesa. Oggi dice:

“Non faccio dietrologie sulla chiusura del Nucleo, ma è chiaro che non erano amati, erano troppo bravi e troppo autonomi”.

Il libro è stato presentato a Milano e già se ne è parlato sui giornali. Nell’articolo di Cesare Martinetti per la Stampa riaffiorano echi di quelle polemiche un tempo molto sotto traccia:

“Il Nucleo era appena stato costituito su iniziativa di Dalla Chiesa e Sechi ricorda che aveva già tanti nemici. La stessa operazione di Pinerolo venne affrettata perché una talpa al Viminale aveva diffuso dettagli riservatissimi”.

Il riferimento è alla cattura di Renato Curcio e Alberto Franceschini, avvenuta a Pinerolo nel 1974, grazie a un infiltrato, Silvano Girotto, frate mitra, il francescano reduce dalle guerriglie sudamericane.

Nonostante i risultati il Nucleo venne sciolto nel ’75, senza nessun motivo apparente se non l’invidia che suscitava il lavoro di Dalla Chiesa”.

“Eravamo un corpo d’élite”

ricorda Domenico Di Petrillo.

Nel libro, rileva Cesare Martinetti,

“affiorano sospetti di connivenze se non di complicità dei terroristi con mondi intellettuali e politici. Sechi ricorda famiglie bene di Torino finite sotto osservazione del Nucleo per l’attivismo dei figli non osteggiato dai padri; come pure la testimonianza di Franco Piperno che rivelò di aver incontrato Mario Moretti (il capo Br che gestì l’operazione Moro) nell’estate del ’78 (dunque dopo la conclusione di quella tragedia) in un appartamento alto borghese di piazza Cavour a Roma”.

Conferma Giovanna Guzzetti: il terrorismo era quel male che, nei primi anni del suo manifestarsi, aveva potuto avvalersi del supporto (anche silenzioso) di alcuni gruppo sociali – grande borghesia, intellettuali degli Atenei – pronti a prendere le distanze dal fenomeno terroristico (solo) dopo l’omicidio del delegato Italsider di Genova, Guido Rossa, ucciso nel gennaio 1979 “dai compagni che sbagliano””.

Un personaggio tratteggiato dal libro è “Trucido”, nome di guerra di Pasquale Vitagliano. Da cronista, ricorda Cesare Martinetti,

“l’ho conosciuto bene in quegli anni e adesso faccio un po’ fatica a riconoscerlo nel ritratto che ne esce da questo bel libro di Fabiola Paterniti”

“«Trucido» riappare dalla sua tranquilla vita di pensionato a Benevento, è un uomo compiuto ma amaro, molto diverso dal Pasquale di quegli anni, un ragazzo che sprizzava vitalità, fiducia, persino una contagiosa allegria. Era difficile vederlo negli ufficetti al piano rialzato della caserma di via Valfrè; più facile incrociarlo nelle assemblee studentesche o ai cancelli della Fiat. Adesso si sente lo scarto tra allora ed oggi, e non è solo un fatto di età: «Ho creduto in questo Stato, lo abbiamo servito e riverito anche se il Paese si è dimenticato di noi. Ma rifarei tutto»”.

Gian Paolo Sechi ricorda come reclutatava i suoi uomini:

“Io li cercavo alla scuola per sottufficiali di Firenze, naturalmente non dovevano essere sposati, né avere legami particolari. Preparavamo documenti falsi, li facevamo diventare studenti, operai, li mettevamo a lavorare alla catena di montaggio di Mirafiori. Insegnavamo loro a vivere come brigatisti, i libri da leggere, eschimo e giornali in tasca… Avevamo ispettrici di polizia che fingevano di far la tesi di laurea per spiare i vicini di banco…” .

Scrive Giovanna Guzzetti su Affari Italiani:

“Gli uomini del Generale, quelli che hanno condiviso gli anni del primo nucleo antiterrorismo e della sua ricostituzione nel settembre del 1978, pochi mesi dopo l’omicidio Moro, sono uomini sottoposti ad una selezione durissima prima di entrare a far parte di quel gruppo ristretto ed affiatatissimo, più di una famiglia. Ufficiali, sottoufficiali ma anche ranghi inferiori, spesso venuti dal Sud e arruolatisi in cerca di un lavoro, catapultati in una dimensione più grande di loro, costretti ad orari e missioni impossibili, con incarichi riservatissimi che non dovevano essere rivelati a nessuno, neanche alla cerchia più stretta, pena l’allontanamento immediato (come in effetti avvenne, non tanto per punizione ma per la salvaguardia del gruppo).

“Il Generale, militare d’osservanza ricco di conoscenze di strategia ma formatosi anche nella tattica della guerriglia dovuta all’esperienza di partigiano, voleva che i suoi uomini non andassero allo sbaraglio, riducessero al minimo l’uso delle armi, addirittura trattassero con rispetto i terroristi ma pretendeva che li conoscessero a fondo, per capire il loro modo di pensare e di agire”.

Ricorda Domenico Di Petrillo, “Baffo”:

“Dovevamo leggere, leggere, leggere. Pura intelligence: leggere i documenti, gli atti delle Brigate Rosse, analizzare scritti, volantini, messaggi… avevamo imparato a pensare come loro”.