Orwell, Fattoria degli Animali: perché TS Eliot lo respinse?

di Daniela Lauria
Pubblicato il 4 Giugno 2016 - 07:58 OLTRE 6 MESI FA

LONDRA – Sono passati 71 anni da quando La fattoria degli animali di George Orwell venne data alle stampe. Il libro, ultimato nel 1943, fu pubblicato il 17 agosto 1945, dopo una lunga e controversa gestazione negli anni della guerra vista la sua feroce satira nei confronti di Stalin e dell’Unione Sovietica che era alleata dell’Inghilterra contro la Germania nazista. Eppure questo straordinario apologo satirico sul potere che mette in scena degli animali come nelle favole di Esopo, non ebbe vita facile tra le mani degli illustri editori dell’epoca. In particolare a sbarrare la strada all’allora sconosciuto George Orwell fu Thomas Stearns Eliot, premio Nobel per la Letteratura nel 1948. Non propriamente un novellino né tantomeno un incompetente avverso alle novità letterarie, per giunta di idee politiche conservatrici.

La prova è scritta nero su bianco in una lettera diffusa solo pochi giorni fa dalla British Library e datata 13 luglio 1944, quando Eliot era direttore della Faber & Faber. Due paginette, scritte a macchina, di garbato ed elegante diniego alla pubblicazione perché, a detta di Eliot, l’opera di Orwell non era “convincente”.

Pur apprezzandone i punti di forza e profondendo lodi sulla qualità del manoscritto per “l’inconfondibile opera di scrittura“, l’editore esprime dubbi sulla credibilità dell’allegoria di Orwell e in particolare per la sua posizione critica nei confronti dell’Unione Sovietica. In pratica il punto di vista dell’autore non era condivisibile dalla casa editrice perché i maiali, protagonisti della fiaba, “avevano ragione” a prendere il controllo della fattoria essendo “molto più intelligenti degli altri animali, e quindi i più qualificati” a gestirla. Anzi, “senza di loro, non avrebbe potuto esserci nessuna fattoria degli animali: pertanto, ciò che occorreva (argomenterebbero alcuni) non era più comunismo, ma maiali con più senso civile”.

Prima ancora il manoscritto era stato rifiutato da almeno altri quattro editori. Tuttavia, Orwell non dovette attendere troppo prima di incontrare un editore abbastanza temerario e pronto a seguirlo controcorrente. La fattoria degli animali uscì infatti l’anno seguente per la Secker & Warburg e nella prefazione l’autore non mancò di togliersi qualche sassolino dalla scarpa: “Se gli editori si impegnano a non pubblicare determinati argomenti – scrisse – non è per timore di una ritorsione penale, ma perché hanno paura dell’opinione pubblica. In questo paese la viltà intellettuale è il peggior nemico che uno scrittore o un giornalista deve affrontare”.

Dopo la pubblicazione, in anni di Guerra Fredda, naturalmente il libro fu fortemente strumentalizzato, esaltato da una parte e denigrato o passato sotto silenzio dall’altra, ma fu in ogni caso un successo planetario. Ed Elliot, c’è da immaginarselo, si sarà mangiato le mani per aver preso una clamorosa cantonata.

Proviamo a contestualizzare il buco nell’acqua. Orwell, socialdemocratico e laburista, combatté in Spagna tra le file del Partido Obrero de Unificación Marxista, partito d’ispirazione trotzkista che per questo subì forti persecuzioni da parte delle formazioni militari staliniste: un’esperienza che lasciò all’autore una precisa idea del totalitarismo e un’ostilità dichiarata nei confronti di Stalin.

Tanto da fargli maturare l’idea di scrivere un feroce racconto di satira politica. La storia è ambientata nella Fattoria Padronale, dove gli animali sono da sempre sfruttati dal padrone Mr. Jones, fino al giorno in cui il proletariato animale non decide di ribellarsi e prendere il potere. La sommossa viene organizzata meticolosamente, e sono pagine di fine humour e analisi della psicologia di massa, sotto la guida, non a caso, di due maiali, Napoleone e Palla di Neve.

Il nuovo regime ha successo e si fonda su sette regole base scritte su un muro, che garantiscono pace e giustizia nella distribuzione del lavoro e dei guadagni. Ma l’ambizione e il gusto per il potere fanno sì che Napoleone (come a suo tempo Stalin), finisca ben presto per tradire la rivoluzione. Dopo aver allevato di nascosto quattro feroci mastini e istituito un corpo di polizia ai suoi soli ordini, si trasforma in un feroce capo assoluto, dichiara i maiali classe dirigente e accusa di tradimento, esiliandolo, il compagno Palla di Neve, che impersona un po’ Trotsky.

Sul muro, cancellati i vecchi comandamenti, c’è chi diceva se ne dovesse scrivere ormai solo uno: “Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri“, perché  “nel tempo dell’inganno universale dire la verità è un atto rivoluzionario”. Tra finzioni e mistificazioni cambiano tutte le carte in tavola e un giorno si scopre persino che i maiali stanno concludendo un trattato di pace con l’antico sfruttatore umano, di cui hanno appreso tutti i difetti. La cena finale tra i maiali e gli umani è un’allegoria della Conferenza di Teheran.

Nella storia, amara e impietosa, c’è già quel pessimismo satirico che troverà poi la sua massima espressione nel capolavoro di George Orwell 1984. Lì lo sguardo è rivolto al futuro in un’ottica utopistica rovesciata, ossia in negativo, e descrive un mondo, non troppo lontano (36 anni dopo), senza più libertà.

Ironia della sorte: nel 1990 l’Enciclopedia Britannica inserì La fattoria degli animali nella sua collana Grandi Libri del Mondo Occidentale. Nello stesso volume è presente anche il poemetto The Waste Land di T.S. Eliot. Quando si dice che la storia è beffarda…