Orlando Furioso, Game of Thrones del 500 tra arabi e cristiani

di Daniela Lauria
Pubblicato il 16 Maggio 2016 - 08:03| Aggiornato il 8 Dicembre 2022 OLTRE 6 MESI FA
Orlando Furioso,Trono di Spade del 500 tra arabi e cristiani

Orlando Furioso, Trono di Spade del 500 tra arabi e cristiani

ROMA – Giusto cinquecento anni fa, ci sia consentito l’azzardo, veniva dato alle stampe il Game of Thrones del Rinascimento. Correva l’anno 1516, era il 22 aprile, e Ludovico Ariosto pubblicava la prima edizione in 40 canti dell’Orlando Furioso. L’opera fu poi corretta e ampliata dallo stesso autore fino al 1532, quando vide la luce la versione definitiva in 46 canti. Ma fin da subito divenne il primo bestseller della storia dell’editoria, al pari dell’irresistibile saga di George R.R. Martin.

Nella ricorrenza del quinto centenario sono molte le iniziative di celebrazione a Reggio Emilia, terra natìa dell’Ariosto e a Ferrara, sua città d’elezione, così come in tutta Italia. Ma quel che più colpisce, rimaneggiando una delle opere più affascinanti della letteratura italiana, è la sua straordinaria attualità. La guerra tra cristiani e saraceni, l’assedio di Parigi, l’epico scontro tra Sacro romano impero e mondo arabo, l’eterna faida tra Occidente e Oriente. Vi suona familiare?

Prima di azzardare sinistri parallelismi è bene fare le dovute presentazioni. Sono tre i filoni principali attorno ai quali si sviluppa l’opera dell’Ariosto: gli amori di Orlando, Angelica e Rinaldo (cui alludono le “donne” e “gli amor” del primo verso del poema); il motivo encomiastico per la casata ferrarese degli Estensi; e infine, ma non per importanza, la guerra tra l’esercito cristiano di Carlo Magno e i saraceni guidati dal Re d’Africa Agramante (“i cavallier” e “l’arme” sempre citati nel primo verso).

Poema cavalleresco, visto per molto tempo come apollineo, cioè come ”poema dell’armonia” che sublima un mondo fantastico in poesia, oggi l’Orlando Furioso viene letto in maniera più approfondita e storica. Ariosto fu del resto uomo totalmente calato nel suo tempo, intellettuale e letterato, ma soprattutto cortigiano presso gli Este di Ferrara, vissuto tra due date che oggi appaiono miliari: la calata di Carlo VIII del 1494, che rivelò l’intrinseca debolezza del nostro paese; e il Sacco di Roma del 1527 da parte dei lanzichenecchi di Carlo V.

La storia raccontata da Ariosto in realtà non è nuova: riprende quella lasciata interrotta dal Boiardo nell’Orlando Innamorato. Anche Ariosto si ripropone di esaltare la Casa d’Este componendo per essa un dilettevole arazzo di epiche storie e di avventure cavalleresche. Per questo intreccia insieme, come già aveva fatto il Boiardo i temi della tradizione carolingia con quelli derivati dalla tradizione bretone, nobilitandoli al contempo con elementi classici. In questo mix sorprendente si sprigiona una macro-vicenda umana e universale, a tratti speculare ai giorni nostri.

Come è noto a dare titolo e sostanza al poema è l’amore di Orlando per Angelica. Un amore non corrisposto che lo condurrà alla follia. Orlando, il più valoroso dei paladini di Francia, è perdutamente innamorato della bellissima Angelica, figlia del re del Catai. Quando lei fugge dal campo di Carlo Magno, Orlando tralascia i suoi doveri di soldato, anzi se ne dimentica completamente, per correre a cercarla. E quando dopo mille peripezie, incontri, scontri, inseguimenti e fughe, scopre che Angelica, invece che ricambiare il suo amore ha preferito sposare il bel soldato saraceno Medoro, perde il senno.

Nudo, in preda a una “gran follia”, Orlando percorre a piedi la Francia, la Spagna e giunge fino in Africa, dopo aver attraversato a nuoto lo stretto di Gibilterra, seminando ovunque panico e distruzione. Sarà l’amico Astolfo a salire sulla Luna, in sella all’Ippogrifo, per recuperare tra le mille cose perse dagli uomini e accumulate lassù, il senno smarrito di Orlando. Una volta recuperata la ragione il prode paladino può finalmente tornare a combattere eroicamente contro i saraceni.

E veniamo così all’altro filone principale, che fa da filo conduttore per l’intera opera: la guerra tra cristiani e saraceni, cioè musulmani. Lo scontro tra Occidente e Oriente ha inizio proprio con l’assedio da parte dei Mori di Parigi, capitale francese e del cristianesimo occidentale. Impossibile non seguire il parallelismo con i giorni nostri: le innumerevoli stragi compiute dall’africano Rodomonte richiamano inevitabilmente alla memoria i recenti fatti di Parigi e di Bruxelles.

Nel poema la guerra, si sa, volge a favore di Carlo Magno: la riscossa dei Cristiani, in soccorso dei quali giungono gli eserciti scozzesi e inglesi guidati da Rinaldo, inizia con la ritirata di Agramante ad Arles. Successivamente i Saraceni subiscono una tremenda disfatta quando, ripassando dal mare vengono sconfitti in una battaglia navale. Contemporaneamente i paladini di Carlo attaccano l’Africa, devastano le terre di Agramante e distruggono Biserta, capitale del suo regno.

A quel punto le sorti della guerra sono affidate ad una sfida tra i tre migliori guerrieri mori (Agramante, Gradasso e Sobrino) e i tre campioni cristiani (Orlando, Brandimarte e Oliviero) sull’isola di Lampedusa. Orlando sbaraglia i nemici e assicura la vittoria a re Carlo Magno.

Ma quel che più colpisce di tutta la saga è il distacco con cui Ariosto descrive il conflitto. Cristiani e saraceni sono trattati allo stesso modo, non vi è apprezzamento per l’una o l’altra parte, entrambi hanno aspetti da recriminare o al contrario da valorizzare. Tanto che pure gli Estensi, per il cui encomio è stata scritta l’intera opera, sono fatti discendere dall’unione, a lungo osteggiata, della guerriera cristiana Bradamante con il cavaliere saraceno Ruggiero.

A distanza di cinquecento anni sembra quasi che Ariosto ci abbia lasciato un messaggio di pace, anzi un inno alla ragione. La guerra, così come l’amore folle e la fede non appartengono al pensiero logico-razionale. Anzi, l’amore che nel filone cavalleresco è sempre stato motivo di elevazione spirituale e nobilitazione, viene visto come una distrazione, una futile passione che porta l’uomo a inciampare nell’inganno, cedendo a incontrollabili furori.

I personaggi dell’Ariosto, che siano essi carolingi o arabi, non sono cavalieri nobili ispirati da alti valori cortesi. Sono spesso uomini irrazionali e pazzi, mossi da un individualismo spinto: combattono, amano e fuggono incuranti dell’interesse generale. La ragione è addirittura collocata su un altro pianeta. Ma è solo con essa, sembra dirci Ariosto, che si può porre rimedio alle follie e all’epico scontro tra due mondi contrapposti in nome di miraggi e illusioni. Il raziocinio, dunque, come risposta umana alla prepotenza, all’esasperazione degli ideali e alle insensate vendette. Non male per un “fantasy” di cinquecento anni fa!