Biografia di Jobs: un “eroe-stronzo” tormentato da un Dio “fifty-fifty”

Pubblicato il 24 Ottobre 2011 - 10:45 OLTRE 6 MESI FA

ROMA – Steve Jobs credeva in Dio? “Fifty-fifty”. Così secondo Walter Isaacson, che ne ha scritto la biografia, risponderebbe il fondatore della Apple. In un intervista rilasciata al Corriere della Sera l’autore della biografia di Steve Jobs ha raccontato la dicotomia “eroe-stronzo”, del suo attaccamento alla famiglia ed al lavoro alla Apple. Isaacson parla anche del “magical thinking” di Jobs derivato dal buddhismo, che l’ha portato a scegliere terapie alternative per curare il cancro, per poi arrendersi a terapie mediche convenzionali nella ricerca di più tempo da vivere. Un tempo che Jobs, morto il 5 ottobre, non ha avuto.

Oltre 40 incontri negli anni in cui Jobs parlando della vita oltre la morte diceva: “A volte credo che Dio esista. A volte no. Vorrei credere nella vita ultraterrena. Ma ho il timore che alla fine ci sia solo un tasto on-off. Un clic, la luce se ne va. E tu non ci sei più. Per questo non mi è mai piaciuto mettere tasti di accensione sui prodotti della Apple”.

Un uomo dal temperamento irascibile e dal carattere spesso duro, che come racconta Isaacson prese confidenza con il giornalista mentre la malattia avanzava e gli diceva: “Voglio credere nella vita ultraterrena, perché questo fa parte della mia formazione buddista. Tutta la saggezza che hai accumulato, la tua conoscenza non svanirà nel nulla quando tu non ci sarai più”, per poi venire assalito dal dubbio che ogni vita umana al suo termine si concludesse con un semplice “off switch”.

Al “Times” il biografo ha spiegato la “dicotomia eroe-stronzo: per lui eri una cosa o l’altra, senza nulla nel mezzo. E magari ti faceva passare da una categoria all’altra nell’arco della stessa giornata”. Jobe era “cortese e poi, d’un tratto, furioso. Beh, è successo una sola volta: quando gli portai un progetto di copertina del libro sul quale stava lavorando l’editore. Con un logo della Apple e il titolo “iSteve”. Lui si imbestialì, disse che faceva schifo, si mise a urlare che non avrebbe più collaborato alla biografia se non avesse avuto voce in capitolo sulla veste grafica del libro. Non fu difficile accontentarlo, visto il suo grande talento per il design”.

Isaacson dice di Jobs: “Mi piaceva. Con tutte le sue asperità, le ossessioni, i demoni che lo divoravano, mi piaceva. E questo è un problema. Lei lo sa: un giornalista dovrebbe sempre mantenere un certo distacco. A maggior ragione un biografo. Ma con lui è stato diverso. Intanto per la incredibile ricchezza della sua storia. Che lui spiegava con un semplice “mi piace vivere all’intersezione tra umanità e tecnologia”. E poi c’era l’aspetto carismatico, ipnotizzante, della sua personalità, l’aura che si diffondeva intorno a lui. Infine, mi ha disarmato con la sua apertura”

Quando Jobs cominciò a parlare del suo privato  demolì “tutti i muri. Ha voluto parlare per ore e ore di tutto: i suoi sentimenti, le sofferenze, le sue storie romantiche. Con lucidità e spesso in modo commovente. Alla fine ho avuto la sensazione di sapere tutto di lui, della sua natura intima. Di conoscerlo come me stesso. Non mi era mai capitato. Ed è, in qualche modo, sconvolgente”.

Era un padre presente, che “non andava mai a “party” e ricevimenti, non accettava premi. Tutte le sere a casa, a cenare in cucina con la famiglia. Ma era assorbito dal suo lavoro: anche a tavola spesso si estraniava, seguiva i suoi pensieri. Amava i figli ma sentiva di non riuscire a comunicare bene con loro”.

Sul lavoro invece ” Dipendeva dalla sua ossessione per la perfezione. Era insofferente non solo della mediocrità, ma anche di tutto ciò che non raggiungeva l’eccellenza. Mi diceva: “È vero, potrei essere più dolce e di certo esiste un modo più delicato per gestire i rapporti coi miei dipendenti. Ma non sarei me stesso. Se una cosa non mi va, io lo dico in faccia. Capisco che è dura, ma alla fine di questo processo solo i migliori giocatori rimangono in squadra. E quelli che restano sono intensamente leali”.

Ormai vicino alla sua fine Jobs tornò alla “sua visione binaria del mondo. Steve era un uomo fondamentalmente razionale, ma il suo approccio analitico non era assoluto. A un certo punto lasciava spazio al “magical thinking”: il pensiero magico sempre rimasto nel fondo della sua anima fin dagli anni delle esperienze giovanili in India, dell’immersione nella spiritualità orientale, dell’adesione al buddismo. Viene da qui anche l’idea dell’inviolabilità del corpo. Alla quale ha rinunciato solo dopo molti mesi di malattia”.

Ma quando tornò alla medicina tradizionale era ormai troppo tardi: ” L’ultima volta che ci siamo incontrati, quattro settimane prima della sua morte, sapeva che il suo destino era ormai segnato. Ma, contro le previsioni dei medici, era convinto di poter vivere ancora un anno. Mi hanno raccontato che il giorno prima della fine era ancora al lavoro sui progetti della Apple e convinto che avrebbe avuto il tempo di leggere la sua biografia. Una fiducia che ti spieghi solo col suo “magical thinking“.