100 giornalisti conosciuti, amati e detestati da Cesare Lanza in 60 anni di mestiere

di Cesare Lanza
Pubblicato il 10 Gennaio 2017 - 06:36 OLTRE 6 MESI FA
100 giornalisti conosciuti, amati e detestati da Cesare Lanza in 60 anni di mestiere

100 giornalisti conosciuti, amati e detestati da Cesare Lanza in 60 anni di mestiere

Cento giornalisti italiani nel giudizio di Cesare Lanza, in mood autocelebrativo per avere raggiunto 60 anni di attività giornalistica e 74 anni di vita. È una galleria di ritratti che si sviluppa su 8 mila parole, pubblicata a puntate sul suo blog (cliccare qui: prima puntata, seconda puntata, terza puntata). Cesare Lanza li ha incontrati tutti, con alcuni ha lavorato, per alcuni è stato determinante. Alcuni sono morti, fanno parte del Tempio del Grande Giornalismo. Sono nomi che ai giovani dicono forse poco ma hanno fatto ciascuno un pezzo di storia d’Italia.

In sintesi: “Montanelli era l’insuperabile ma il più grande fu Benedetti” anche se il più grande più grande di tutti in assoluto in Italia, fra i primi 10 a livello europeo è Eugenio Scalfari.

Ne segnaliamo alcuni.

Arrigo Benedetti (Lucca, 1 giugno 1910 – Roma, 26 ottobre 1976). Giornalista, scrittore e partigiano. Ha fondato Oggi, L’Europeo e L’Espresso, ha diretto II Mondo. Un grande direttore, purtroppo l’ho appena intravisto: ero accettato per qualche collaborazione. S’infuriava per le frasi fatte e i luoghi comuni: ricordo una sua sgridata al telefono perché avevo scritto «per parte mia». Magistrale.

lndro Montanelli (Fucecchio, 22 aprile 1909 – Milano, 22 luglio 2001). Mi concesse affabilmente l’intervista, per II Mondo, che determinò il suo licenziamento dal Corriere della Sera e la fondazione del Giornale nuovo, oggi semplicemente II Giornale. Incontrandomi, mi definiva così: «Ecco la levatrice del nostro giornale…». Avrei fatto carte false, pur di lavorare con lui. Tra le centinaia delle sue frasi celebri, scelgo questa, di grande attualità: «II bordello è l’unica istituzione italiana dove la competenza e il merito sono riconosciuti». Insuperabile.

Alessandro Maria Perrone, detto Sandrino (Roma, 14 settembre 1920 – Roma, 1 settembre 1980). Gran direttore, aperto alle novità. Ma fu soprattutto il mio editore e sono legato al suo ricordo per alcuni tra i più bei mesi della mia vita. Era proprietario, con il cugino Ferdinando al 50%, del Messaggero e del Secolo XIX. Il cugino (ostile alla sua linea favorevole al centrosinistra) vendette la sua metà, Sandrino non voleva cedere e respinse l’assalto di Eugenio Cefis, presidente della Montedison, che voleva insediare Luigi Barzini. Arrivò a dormire nella sede del giornale per timore di essere espugnato. E non si muoveva mai da Roma. Come suo vicedirettore al Secolo XIX, vissi mesi indimenticabili, in assoluta indipendenza. Mai un ordine da lui, neanche un’indicazione. Libertario.

Edilio Rusconi (Milano, 11 novembre 1916 – Milano, 10 luglio 1996). Chiamato da Angelo Rizzoli senior a dirigere Oggi, dopo averlo portato a vendite stellari («Altro che notizie, la gente vuole sognare»), diventò editore in proprio, fondando Gente. Straordinario per carisma. Nel 1984 rilevò La Notte e mi offrì di dirigerla. Non volevo accettare, consideravo inevitabile la fine dei quotidiani del pomeriggio. S’intestardì. Mi urlò: «Insomma, se lei fosse al mio posto, lo assumerebbe Lanza, sì o no?». Io: «No!». E lui, battendo un pugno sul tavolo e strillando ancora più forte: «E invece io l’assumo!». Impossibile resistergli. Unico.

Nicolo Carosio (Palermo, 15 marzo 1907 – Milano, 27 settembre 1984). Nella storia come radiocronista – un incantatore – e poi, con fatica, anche telecronista, perseguitato per qualche innocente gaffe («un whiskaccio»…), oggi risibile. L’ho conosciuto alla fine della sua epopea: sempre carismatico, ma intristito da offese e sgarbi. Popolarissimo.
Walter Tobagi (Spoleto, 16 marzo 1947 – Milano, 28 maggio 1980). Quando ero alla direzione del Corriere d’Informazione, mi trovai nella necessità di nominare il capo della redazione romana. Ero indeciso, a Milano, tra i due giornalisti più attenti alle cronache politiche, tutti e due impegnati a seguire il terrorismo: il giovane e mio coetaneo Guido Vigna (Mantova, 1942), un personaggio atipico, con alcune divertenti stravaganze (finora ha collezionato oltre 100.000 necrologi, dopo averne selezionato 2 milioni e mezzo). Alla fine scelsi Vigna. Tobagi proseguì il suo lavoro, continuano a occuparsi delle Brigate rosse. Dopo il mio addio al Corinf, fu assunto dal Corriere della Sera: qualche anno dopo fu trucidato dai terroristi. Ho sempre pensato che il suo destino probabilmente sarebbe stato diverso, se avessi inviato lui a Roma, anziché Vigna. Una spina nel cuore.

Camilla Cederna(Milano, 21 gennaio 1911 – Milano, 5 novembre 1977). L’ho frequentata negli anni Settanta, nei salotti milanesi, in cui Camilla era protagonista corteggiatissima. Io vi venivo trascinato dalla mia compagna dell’epoca. Mantengo profonda ammirazione per la sua raffinatezza come cronista mondana dei costumi: ironica, elegante e implacabile. Quegli articoli sono tuttora un modello di giornalismo. Tuttavia ho un forte risentimento, verso di lei e verso me stesso, perché mi lasciai coinvolgere da Camilla, come tanti altri, nella sua dissennata campagna diffamatoria (spero in buona fede) contro un galantuomo, Giovanni Leone, all’epoca presidente della Repubblica. Come altri superficiali stupidoni, abboccai, senza rendermi conto che alla radice c’era solo una moda sinistrorsa e giustizialista, che non mi apparteneva. Ho chiesto scusa tante volte, e le rinnovo qui. Esagerata.

I nomi che precedono fanno parte ormai del mondo dei più. Segue un campione dei viventi.

Eugenio Scalfari (Civitavecchia, 6 aprile 1924). Il più grande, permaloso (come me, nel mio piccolo) e detestabile. Quando si preparava a lanciare La Repubblica, lo intervistai: mi disse che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di imporre la sua creatura, anche a costo di «colpi bassi». La frase non piacque a uno dei suoi soci di allora (Giorgio Mondadori). Così mi smentì tre volte, sul Corriere della Sera e sull’Espresso, e per tre volte rintuzzai e confermai. Da allora non ci siamo più parlati. Inge Feltrinelli mi disse che Scalfari aveva consultato l’elenco degli invitati per un ricevimento in suo onore e mi aveva depennato (l’unico).

Lo considero straordinario come imprenditore, sia pure con il sostegno, fondamentale, di Carlo Caracciolo e Carlo De Benedetti. Non è un semplice, e formidabile, giornalista: è stato tra i protagonisti del Palazzo che ha raccontato ex cathedra. In politica non ne azzecca mai una: Brexit, Beppe Grillo, Donald Trump, Matteo Renzi kappaò nel referendum sono i tonfi più recenti.

Paolo Mieli (Milano, 25 febbraio 1949). Intelligenza superiore, meccanismi mentali pindarici. Cesare Romiti una volta mi disse: «Nessuno può mai immaginare ciò che passi per la testa di Mieli, quando dice qualcosa». E Gianni Agnelli sentenziò: «Ha messo la minigonna al Corriere della Sera». Inevitabilmente volubile nelle scelte politiche. Ha un’esigenza, umanissima, di affettività: l’ho visto piangere. Gli debbo riconoscenza perché mi aiutò, in un periodo buio del mio lavoro, a collaborare ad alcuni giornali. Seduttivo con le donne, ma irraggiungibile, inconquistabile. Sottilmente vendicativo, anche per questo aspetto un fuoriclasse.
Paolo Panerai (Milano, 12 febbraio 1946). Ha fondato Class, giornalista ed editore, con un successo inferiore solo a quello di Edilio Rusconi, che ha puntato sul giornalismo popolare e a quello di Scalfari, che ha interessi analoghi. Però Paolo non ha sposato la figlia di un mito del giornalismo (Giulio De Benedetti, direttore della Stampa), non ha avuto un socio-amico come Carlo Caracciolo. Rispetto a Scalfari, capisce assai più sia di economia, sia di politica. Ha fatto da sé. Eravamo amici negli anni Settanta, poi le nostre strade si sono separate. Ci volevano palle di acciaio per trasformare II Mondo, settimanale cult di politica e cultura, in un periodico specializzato nell’economia. Determinato.
Piero Ottone, all’anagrafe Pier Leone Mignanego (Genova, 3 agosto 1924). Il mio secondo e ultimo maestro, dopo Antonio Ghirelli. Prestigioso come inviato, come corrispondente.(da Londra e da Mosca) e soprattutto come direttore. Insolitamente privo di ambizioni carrieristiche, ma orgoglioso (english nel midollo) e indipendente. Lasciò il Corriere, scontento per la nomina di Giovanni Spadolini, per poi tornarvi come direttore dopo un’esaltante esperienza al Secolo XIX: rivoltò il vecchio quotidiano genovese, trasformandolo in un giornale moderno e vivace, attento alla cronaca e all’attualità, i fatti ben separati dalle opinioni.

Mi assunse come capo dello sport, su indicazione di Gino Palumbo, e poi mi nominò – ero il più giovane – caporedattore, forse anche per domare la fronda di una redazione anziana e mollacciona. A Milano, una più ardita profonda innovazione: nessun pregiudizio verso la sinistra, gli articoli di Pier Paolo Pasolini in prima pagina, il licenziamento di Indro Montanelli. Nel cuore, vive una sola, vera passione: la barca a vela. Si è ritirato a Camogli e il suo rammarico è di non poter andare più per mare. Ha annunciato che non scriverà più.

Vittorio Feltri (Bergamo, 25 gennaio 1943). Ho rimorsi, invidia e anche gratitudine per lui. Rimorso: era redattore del Corriere d’Informazione quando vi piombai come direttore e non ne riconobbi il talento. Invidia: è stato probabilmente il più grande nel fiutare gli umori popolari (Lega, ribellione anti Casta, Tangentopoli, Affittopoli) e a costruirci sopra tirature eccezionali. Gli invidio anche la fenomenale capacità di ottenere dagli editori compensi (meritati) di livello strabiliante. Gratitudine: mi ha difeso in occasioni importanti, per esempio in una disputa con un presidente della Rai, Antonio Baldassarre. E poi è depresso, inquieto e infelice come me. Mi ha usato qualche sgarbo, condito con promesse non mantenute (questa è la stampa, bellezza…), infine è sparito. Piccolezze.
Ezio Mauro (Dronero, 24 ottobre 1948). Ho scandalizzato molti amici dicendo che è stato più bravo diScalfari. Un ventennio al timone come il Fondatore e durare è più difficile che inventare. Non ha mosso mai un’unghia per me, neanche nei miei momenti di sfiga nonostante tanti elogi. Mi ha lusingato dicendomi che il mio Corriere d’Informazione era un modello. In una città sirena come Roma, non ha ceduto alle feste, ai ricevimenti e alle mondanità: concentrato notte e giorno esclusivamente sul giornale. Nella vita sentimentale, enigmi e inquietudini romanzesche. Due limiti: schierato a sinistra, a prescindere. E ha accolto ed esaltato un certo Roberto Saviano. Super lavoratore.

Franco Di Bella (Milano, 19 gennaio 1927 – Milano, 20 dicembre 1997). Fu assunto da Mario Missiroli al Corriere per uno scoop: era stato l’unico a scovare la fotografia di Bruno Pontecorvo, il fisico nucleare (allievo di Enrico Fermi) che nel 1950, in piena guerra fredda, scappò in Unione Sovietica. Capocronista eccezionale, portò in prima pagina la bistecca e una lettera d’amore. Arrivò a tirature impensabili. Dopo quattro anni di direzione fu estromesso in poche ore perché il suo nome era apparso nella lista P2 di Licio Gelli. Grande e incauto.

Lamberto Sechi (Parma, 16 maggio 1922 – Venezia, 20 giugno 2011). Frase cult: «Un giornale non può avere amici». Ha svezzato almeno una dozzina di ottimi giornalisti. Ha inseguito, con Panorama, fin dalla copertina, il sogno impossibile di tener separati i fatti dalle opinioni, ma è celebrato soprattutto come esimio confezionatore del newsmagazine. Conversare con lui significava imparare tecnica e attingere idee. Metodico.

Ferruccio de Bortoli (Milano, 20 maggio 1953). Lo assunsi al Corriere d’Informazione, prendendolo dal Corriere dei Ragazzi, dove aveva esordito come praticante. È stato, tra i miei allievi, quello che ha avuto maggior successo: due volte direttore del Corriere della Sera per un record, in totale, di permanenza; di passaggio, la direzione del Sole 24 Ore. Lo arruolai sulla base di un colloquio (come ho fatto sempre con tutti, senza mai cedere a raccomandazioni di qualsiasi tipo), intuendo che mi trovavo di fronte a un dirigente nato e vestito (arrivava in redazione in blazer blu, i suoi coetanei in jeans sdruciti e maglietta). Ed è stato, per precisa vocazione, quello che mi ha deluso maggiormente, sul piano umano. Per onestà intellettuale, sono obbligato a riconoscere le sue qualità straordinarie. L’ultima prodezza è quella di aver capito, tra i primi, la dimensione piccola di Matteo Renzi. Difficile immaginare che cosa abbia avuto in mente, attaccandolo con inusuale crudezza: non mi stupirei, caduto Renzi, se pensasse di tornare dominus in via Solferino, se non ancora direttore per la terza volta, come un redivivo Richelieu. Cardinalizio.
Sergio Zavoli (Ravenna, 21 settembre 1923). Al Corriere dello Sport, negli anni Sessanta, Antonio Ghirelli gli chiese di collaborare con una rubrica quotidiana prendendo spunto dal celebre Processo alla tappa del Giro d’Italia. Mi fu affidato il delicato compito di «passare» il suo pezzo. Un giorno, impaginando in fretta, collocai la rubrica in maniera improvvida, dimessa. Zavoli telefonò a Ghirelli e interruppe la sua collaborazione, senza accettare scuse. Sdegnoso.
Giampaolo Pansa (Casale Monferrato, 1 ottobre 1935). Un mito per me, e non solo: Guido Vigna ha scritto che era un idolo per i giovani del Giorno, al contrario di Giorgio Bocca, intrattabile (pretendeva che gli si desse del lei). Revisionista sulla Resistenza, con un coraggio smisurato: ha affrontato attacchi aggressioni pericolose!) e ostilità superficiali e diffuse. Scrive con originalità, avrebbe meritato la direzione della Repubblica o dell’Espresso: il suo carattere orgoglioso e per niente incline a compromessi lo ha emarginato.

Bruno Vespa (L’Aquila, 27 maggio 1944). Prostata di ferro: durante le maratone televisive, non va mai in bagno. Abilità mostruosa nella gestione dei rapporti e nella difesa del suo programma storico, Porta a porta. Intoccabile: tanti desideravano farlo fuori, nessuno ci ha mai provato seriamente. Una sicurezza d’acciaio nel suo cervello: «Sarò ancora qui quando voi non ci sarete più», di fronte a una dozzina, al minimo, di direttori generali e di consiglieri di amministrazione della Rai. Non credo di essergli simpatico, però mi ha invitato qualche volta al suo talk. Apprezzabile per l’equilibrio (fisiologicamente è governativo e attento, ma non devoto, a chi è al potere), un mix complicato tra qualità giornalistica, rispetto verso i potenti, esigenze dei telespettatori. Sia pur con qualche inevitabile infortunio, non si asservisce e raramente è arrogante. Scrive libri interessanti, che promuove minuziosamente. Perfezionista.
Clemente J. Mimun (Roma, 9 agosto 1953). La «J.» sta per Jackie. Suo padre, patito di Charlie Chaplin, volle dargli quel secondo nome per ricordare Jackie Coogan, l’attore protagonista del Monello. Ho avuto, come tutti, rapporti corretti con lui. Senza macchie, miracolosamente, anche se ha diretto, in Rai e in Mediaset, telegiornali sotto sorveglianza politica, berlusconiana. Non osa più di tanto, ma non nasconde le notizie: una persona perbene, un gentiluomo a suo agio – con ironia – nel Palazzo. Ha superato un brutto colpo di salute. Sa valutare uomini e cose. Professionista.
Carlo Rossella (Corteolona, 19 ottobre 1942). Una volta ha perso una scommessa con me, per una previsione su un risultato elettorale. In palio un pranzo, che non ha mai pagato. Per un giocatore come me, è insopportabile: le scommesse si onorano. Gliel’ho rinfacciato molte volte. Silenzio assoluto. La rubrica Alta società, che da anni firma sul Foglio, è ridicola: soffietti periodici ai suoi amici. Una volta ne parlavo con il suo grande amico Diego Della Valle, che commentò con una risata: «Gli ho detto: se scrivi quella rubrica per far la figura del coglione, ci riesci perfettamente». Carletto ha diretto il Tg1 e giornali importanti, ha sfiorato perfino il Corriere della Sera. Grandi qualità incompiute: irrisolto, un uomo di mondo. Quando dirigeva La Stampa, aveva attaccato al muro, alle sue spalle, la foto di Gianni Agnelli; quando arrivò al Tg1, la foto del Papa. Tattico.
Marco Benedetto (Genova, 26 gennaio 1945). Superstiziosissimo, sospettosissimo. Intelligenza superiore: a 20 anni noi ragazzi sognavamo di firmare in prima pagina, di fare gli inviati. Chissà, in futuro, anche i direttori. Lui era avanti di 30 anni: andava a Londra e New York, studiava il giornale nella sua complessità: redazione, amministrazione, stampa, diffusione, pubblicità. Non a caso è diventato amministratore della Stampa e poi, del gruppo che pubblica L’Espresso e La Repubblica, dove per lustri è stato il pupillo dell’editore Carlo Caracciolo. Il suo sogno era di dirigere un giornale: ne ha fondato uno su Internet, Blitz. Vive a Roma in solitudine, in un castello medievale: legge solo i giornali e i libri stranieri, nella lingua originale. Offre a me e agli ospiti (ben selezionati) una focaccia al formaggio più allettante di quella di Recco. E la prodigiosa intelligenza nella senilità si è inasprita: in una salsa bonariamente cinica, in battute sprezzanti e folgoranti. Strategico.
Giovanni Valentini (Bari, 6 febbraio 1948). Ha diretto bene L’Espresso e ha sognato – ambizione legittima e ragionevole – di poter dirigere La Repubblica. Gli è stato preferito Ezio Mauro e alla fine, dopo frizioni e conflitti, se n’è andato. Per anni sulla Repubblica, ha inchiodato Berlusconi, con una rubrica settimanale, per le invadenze (non solo) televisive. Oggi è un piacere parlare con lui: fa nomi e cognomi, ci mette la faccia, non lesina graffi e staffilate a destra e manca. Mi piacciono (non solo) i giornalisti animati dal fuoco, sacro, della competizione e della vendetta. Fustigatore.
Sandro Mayer(Piacenza, 21 dicembre 1940). Gentile, sempre, forse anche grato. Poi è sparito. Per continuità e competenza, è una sicurezza, come sanno bene i suoi fortunati editori. Versatile.
Umberto Brindani(Busseto, 4 aprile 1958). È molto di più che un cronista di vicende rosa. A Panorama è stato un pilastro nella «macchina». Attualmente, da direttore di Oggi, riesce a mantenere la diffusione del settimanale su livelli che hanno del miracoloso. Anche lui è tra quelli che hanno avuto molto meno (forse per carattere) di quanto meritassero. Ottimo organizzatore, farebbe bene dovunque. Preparato.
Paolo Mosca (Pallanza, 20 ottobre 1943 – Roma, 30 novembre 2014). Figlio del leggendario Giovanni, estroso e con un senso innato dell’umorismo, come il padre. Un giocatore di roulette sfrenato e compulsivo, compagno di avventure con me ai tavoli verdi. In comune avevamo anche, con temperamentale rispetto, l’amore per le donne.
Roberto D’Agostino(Roma, 7 luglio 1942). Un uomo solo al comando, comeFausto Coppi. Su suggerimento della sua amica Barbara Palombelli, ha inventato il seguitissimo Dagospia. Io non ho il problema di consultarlo, perché a decine – tanto è ricercato – mi segnalano i suoi colpi del giorno. Siamo diversissimi, anche se è nato un giorno appena prima di me: sento stima e amicizia, abbiamo parecchie importanti conoscenze in comune, mi sarebbe piaciuto frequentarlo di più, tanto è divertente nella sua intelligente sfrontatezza. Di lui non mi piace solo una cosa: la barba troppo lunga.
Lilli Gruber Appassionata Lilli Gruber all’anagrafe Dietlinde Gruber (Bolzano, 19 aprile 1957). Inventata da Antonio Ghirelli, che cercava una donna per condurre il Tg2 e le impose di sedere di traverso alla scrivania. L’invitai a una Domenica in per presentare un suo libro: ho sempre apprezzato la sobria educazione con cui nasconde i sentimenti e da attenzione al suo look. Ne ha fatta, di strada: anche un passaggio politico. Nel 2014 assente, dal lavoro per più di un mese, per stress. Poi, di nuovo in gran forma. Tenace.
Myrta Merlino(Napoli, 3 maggio 1968) Come la Gruber, nella primavera del 2016 si è fermata su ordine dei medici, per stress. Assente per un mese. Se fosse più umile, potrebbe essere grandissima: buca il video. Conduce L’aria che tira su La7 con eccessi non giustificabili: si sovrappone agli ospiti, volendo a ogni costo dire sempre la sua, con interventi intrusivi. Spesso spezza i ragionamenti di quelli che stanno dicendo (finalmente) cose intelligenti e originali, annunciando la pubblicità e promettendo di riprendere dopo l’interruzione (ma non avviene quasi mai). Peccato! Però può ancora farcela, se riesce a contenere le voglie di protagonismo. Smodata? Certo incompiuta.
Malcom Pagani (Roma, 21 giugno 1975). Un gioiello del Il Fatto Quotidiano. Le sue interviste sono piccoli capolavori, intrisi riell’oggettività e nella curiosità. Gli fanno scrivere ciò che vuole e lui non si lascia appesantire mai dall’impostazione forte e dura del suo giornale. Le interviste potrebbero apparire in qualsiasi testata, ma forse poche gli darebbero la libertà che II Fatto, prima conAntonio Padellaro e ora con Marco Travaglio, gli accorda. Talentuoso.
Stefano Regolini (Cremona, 22 maggio 1957). Vicedirettore del Messaggero. È l’uomo macchina oggi più dotato: salute di ferro, forza da leone, ottimo motivatore. Sa decidere rapidamente, ha il senso grafico in testa.Galvanizzatore
Franco Bechis (Roma, 25 luglio 1962). Vicedirettore di Libero. È il noto e implacabile scopritore di ghiotte ed esclusive notizie politiche, economiche e giudiziarie, senza mai ricorrere alle soffiate dei procuratori. Bulimico nella scrittura, firma anche con svariati pseudonimi (i più usati sono Fosca Bincher e Chris Bonface). Un asso del Web: riprese corsare con videocamere nascoste, monta i video e li mette in Rete. Un tiratardi che sforna i pezzi alla velocità di una telescrivente. Onnipresente
Michele Arnese (Roma, 29 settembre 1969). Dirige il sito Le Formiche.net. Di cultura finanziaria, nel suo curriculumMilano Finanza, II Mondo e II Giornale. Sotto la sua direzione, Le Formiche è diventato il punto obbligato di riferimento del mondo politico ed economico. Ha raccoltograndi firme e ne ha inventato di nuove. Nel clima romano, provinciale, è riuscito a costruire una dimensione internazionale. Formichina. .