Bersani: 4 milioni di voti in meno di Veltroni. L’unica è: rivotare con Renzi

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 27 Febbraio 2013 - 15:46| Aggiornato il 12 Agosto 2022 OLTRE 6 MESI FA

ROMA –  Bersani-Bersani: “Non abbiamo vinto ma siamo primi”, il miglior commento è stato quello di Bersani-Crozza: “Come dire alla bella del paese, non me l’hai data ma mi è piaciuto lo stesso”. Primi? Primi nella precipitosa corsa del gambero, nell’andare all’indietro: quasi 4 milioni di voti persi rispetto alle ultime politiche. Quattro milioni di voti in meno rispetto al risultato con Veltroni leader. Veltroni che quasi tutto il Pd aveva accusato di procurata sconfitta perché troppo “destro”. Quattro milioni di voti in meno e meno male che Bersani aveva riposizionato il Pd a sinistra. Quattro milioni in numeri assoluti, in percentuale del 33,2 al 25,4 per cento. La prossima volta potrebbero essere ancora di meno.

Perché il Pd sembra essere oggi fortemente indeciso solo su quale strada imboccare per suicidarsi definitivamente. Una è quella che porta cioè ad un governo di minoranza con sponde più o meno occasionali grilline. L’altra è quella di una intesa di governo con Berlusconi. In entrambi i casi una strada che non porta da nessuna parte se non ad un ulteriore tracollo del partito di Bersani. Se si infila nel vocolo cieco del governo ad ogni costo stavolta il Pd rischia l’estinzione.

Dovrebbe il Pd, dicono i numeri che diligentemente Renato Mannheimer sul Corriere della Sera mette in fila, fare una scelta radicalmente diversa per rilanciarsi, e forse addirittura per sopravvivere. Una scelta che si chiama ritorno al voto e che prevede, o dovrebbe prevedere, un radicale ricambio dei vertici e un sostanziale cambio di linea politica, visto che gli uni come l’altra si sono dimostrati perdenti. Ipotesi e analisi che non sembrano andare per la maggiore a Botteghe Oscure nonostante la “riscoperta” di Matteo Renzi segnali che, almeno nella pancia dei democratici se non nella testa, qualcosa che va in questa direzione si percepisca.

 “Un calo significativo è stato subito anche dall’altro grande partito presente sul nostro scenario politico: il Pd. Quest’ultimo poteva contare su circa 12,5 milioni di consensi nel 2008. Domenica e lunedì il partito di Bersani ha colto circa 8 milioni e 600 mila voti, con un decremento di quasi 4 milioni di consensi (…) quasi il 16% del suo elettorato passato si è diretto verso Grillo. La campagna elettorale di Bersani non è valsa dunque a conquistare nuovi consensi né, peraltro, a mantenere tutti quelli passati. (…) Si va dunque erodendo anche la base tradizionale, non ultimo a causa di importanti mutamenti avvenuti nella stessa composizione socio-economica dell’elettorato italiano”, scrive Mannheimer sul Corriere.

Aveva il Pd, nell’ormai lontano 2008, quando alla guida del partito c’era Walter Veltroni, ottenuto il 33,2% dei consensi. Cinque anni dopo, lo scorso fine settimana, il partito guidato ora da Bersani si è fermato al 25,4. Quasi nove punti percentuali e circa 4 milioni di voti in meno. Cifre e numeri che rendono drammaticamente insufficiente e miope la posizione “non abbiamo vinto ma siamo primi”. Il Pd, per bocca del suo segretario, averebbe dovuto dire altro, avrebbe dovuto dire chiaro e tondo gli elettori ci hanno bocciato e Bersani avrebbe dovuto trarne le conseguenze. Certo non subito, nonostante il calo il Pd è comunque titolare di una maggioranza, per quanto monca, e non può quindi Bersani sottrarsi a quello che ormai è per lui un onere: accettare l’incarico esplorativo che il Presidente Napolitano inevitabilmente gli affiderà.

Bersani, e con lui il Pd, sulla base di quell’incarico cercherà quello che già punta: la formazione di un governo di minoranza che per breve tempo vivacchierà e che, non appena dovrà prendere una singola decisione difficile, cadrà malamente. Un esempio semplice? Eccolo: se l’Italia avrà bisogno dello scudo salva stati, e la corsa dello spread post elettorale rende questa ipotesi tutt’altro che campata in aria, dovrà, come da regole europee, sottoscrivere un memorandum con impegni precisi. Un memorandum che mai e poi mai né grillini né redivivi berluscones firmerebbero. I primi perché felicemente e incoscientemente anti Europa e anti spread e i secondi perché difficilmente desiderosi di fare un favore al Pd. Una scenario che porterebbe certamente ad un’ulteriore bocciatura nelle urne del Pd.

Ricette miracolose non esistono mai e men che meno in politica ma, per tentare un “rimbalzo”, altra dovrebbe essere la strategia democratica. Sulla base dell’incarico esplorativo dovrebbe Bersani presentarsi al Parlamento non puntando alla sopravvivenza, magari con la foglia di fico di una riforma della legge elettorale, ma rilanciando. Dovrebbe il Pd presentarsi alle Camera e chiedere la fiducia su un programma ambizioso. Fiducia che ovviamente non otterrebbe, ma che se per miracolo ottenesse gli consentirebbe di governare. Una volta bocciato, Bersani e con lui l’establishment tutto del partito democratico, dovrebbero farsi da parte. Solo in Italia infatti ad una sonora bocciatura degli elettori non consegue un ricambio delle persone. E dovrebbe farsi da parte per consentire ai nuovi, in primis a Renzi che tutti o quasi ora evocano più o meno a malincuore, di presentarsi alle nuove, inevitabili, elezioni. Adesso si scoprono tutti un po’ renziani, appena tre mesi fa al secondo turno delle primarie quasi tutto il Pd dichiarò inquinanti e inquinati i voti “da fuori”, quelli di cittadini italiani che non avevano votato al primo turno, che non erano “di casa”, che erano “di destra” e magari “grillini”. Voti che portavano in grembo inemendabile peccato originale, quello di essere probabilmente voti per Matteo Renzi.

Un partito quindi di persone “nuove”, dove il nuovo non è quello dei grillini ma è sinonimo di giovani che nel Pd già vivono, riuscirà mai ad esserlo il Pd? Con formula che da quelle parti piace, se non ora quando? E stesso trattamento d’urto dovrebbe seguire la linea politica democratica: basta inseguire Nichi Vendola e quella che per comodità definiremo sinistra radicale. Che piaccia o meno è questa una scelta che in Italia non paga. Veltroni, bollato come “destro”, era stato votato da 12 milioni e mezzo di italiani. Bersani, quello che ha riposizionato il Pd a sinistra, da 8 milioni e 600 mila e subito, su di lui, è calata l’ombra del grande escluso, quel Renzi bollato anche lui come “destro”. E con l’ombra dl sindaco di Firenze si sono allungate sul Pd anche quelle degli elettori che avrebbe potuto portare, in alcuni casi quelli che proprio il Pd, alle primarie, ha voluto tenere lontani blindando il secondo turno.

L’Italia è, come insegna la storia elettorale di questo Paese, una nazione fondamentalmente conservatrice in cui, nel massimo delle sue potenzialità, la sinistra in senso lato ha un peso di circa un terzo dell’elettorato. Assodato questo, che al di là dei gusti e dei credi politici è un dato sociologicamente concreto, appare ovvio che per vincere, per governare, la sinistra deve presentare agli elettori la sua anima “riformista”. Perderebbe, così facendo, il consenso degli elettori vendoliani e simili, una perdita che sarebbe però compensata con ogni probabilità da una ben più generosa conquista di elettori moderati che, già in passato, si sono mostrati disponibili a votare un Pd meno imbrigliato dalla sinistra “radicale”.

Le persone passano, Bersani non merita forse d’essere crocefisso e Renzi d’essere oltremodo incensato. Quello che però resta un mistero è come a Botteghe Oscuro nessuno o quasi si sia accorto, in 60 e passa anni di Repubblica, che se si vuole provare a governare si devono premiare i Veltroni e i Renzi di turno.