Brexit prezzo: soldi decimati in un giorno, tasche colpite per anni

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 24 Giugno 2016 - 15:03| Aggiornato il 10 Gennaio 2019 OLTRE 6 MESI FA
Brexit

Brexit

LONDRA – Soldi decimati, risparmi amputati, come il giorno di Lehman Brothers fallita, il più grosso taglio da allora: in Europa l’otto per cento dei soldi che c’erano prima non ci sono più. Soldi non solo della finanza e dei mercati che chissà chi sono e chi se ne frega. Soldi di tanti cittadini in carne e ossa. Quanti sono quelli che in Europa hanno investimenti diretti nelle Borse? Pochissimi, al massimo decine di migliaia di persone. Ma quanti hanno una quota di Fondi Comuni di Investimento o un risparmio in obbligazioni? Milioni, decine di milioni. Ecco i soldi di decine di milioni vengono decimati in queste ore.

E banche che valgono ad esempio in Italia addirittura il 20 per cento del giorno prima, le banche grosse, di sistema, Intesa San Paolo, Unicredit.E le Banche centrali, Bce e Banca d’Inghilterra e Fed e banche centrali anche d’Asia che si dicono pronte a rifornire le banche che restassero senza soldi, letteralmente senza soldi. Sono pronte davvero, ma lo si dice ufficialmente anche per tentare di fermare la voglia di andarsi a prendere in banca i propri soldi rimasti. Banche che valgono di meno, anche se non scatta panico della corsa allo sportello, significa domani, già domani banche che prestano di meno. Quindi aziende che investono di meno, producono di meno, danno meno lavoro. Nelle Borse e sul risparmio magari l’amputazione dei soldi finisce tra qualche settimana, resta il moncherino ma il sangue non scorre più. Ma nella testa e nelle tasche dell’imprenditore, del commerciante, del lavoratore il danno scavalla l’anno, è onda lunga.

E inevitabilmente nella testa e nei comportamenti di tutti la sostituzione del paradigma “unione fa la forza” con quello “ognuno per sé”. Se oggi Draghi dicesse che Bce “farà tutto il necessario” per difendere l’euro non gli basterebbe dirlo e basta come bastò a suo tempo. Allora parlava a nome di una Unione economica e finanziaria, oggi parlerebbe a nome di una Unione economico, finanziaria, monetaria in cui è evidente e montante la voglia politica e popolare di sganciarsi, allontanarsi. Se l’euro e il debito, facciamo italiano, lo garantisce anche la Germania e la Francia e la Polonia e viceversa è una cosa, se ognuno garantisce per sé i valori sono ben diversi. La fiducia e la reciproca affidabilità subiscono cali maggiori di quelli dei listini.

E’ il primo costo di Brexit, il costo nelle tasche in soldi e soldoni di una giornata. Anche a non voler conteggiare il costo per i britannici a reddito fisso, i pensionati soprattutto, del grande calo della sterlina. La loro pensione vale in un giorno il 10 per cento di meno. E’ accertato che i britannici sopra i 60 anni hanno votato in gran massa per Brexit, se la sono voluta, quindi non conteggiamo il costo per loro. Ma anche con questo sconto il prezzo è alto, esoso e, nonostante i moltissimi illusi di essere esentati dal farlo, saranno, saremo più o meno tutti a pagarlo il prezzo di Brexit.  Listini in rosso, con Milano che ad ora di pranzo segna una perdita in doppia cifra,  sterlina in caduta libera tornata ai livelli degli anni ’80 e titoli bancari che pagano tutta l’incertezza  che verrà. Nella mattina in cui l’Europa si è svegliata scoprendo che la Gran Bretagna aveva deciso  di abbandonarla, le piazze finanziarie di tutto il mondo, da Tokyo a New York passando,  ovviamente, per le dirette interessate del Vecchio Continente, stanno bruciando miliardi su  miliardi. “Brexit può essere la nuova Lehman”, dice Vincenzo Longo, analista di Ig Markets.

La nuova  Lehaman non solo per le conseguenze dirette che avrà sull’economia, come la riduzione dell’export  e simili, ma anche e soprattutto perché da oggi si entra in un mondo sconosciuto e quindi pieno di  incertezze e paure, nemici giurati dei mercati.

E le prime a pagare questa paura sono le banche. “Il FTSE MIB è sceso sotto quota 16mila punti  tornando ai minimi dal febbraio scorso. Le vendite sono generalizzate su tutti i settori, ma le  protagoniste in negativo anche a Milano restano le banche – riporta l’edizione on line del  Sole24Ore , continuamente fermate in asta di volatilità. Cali ben superiori al 20% per tutti gli  istituti di credito quotati a Milano, con Monte Paschi che è arrivata a cedere quasi il 30% , Intesa  Sanpaolo sui valori del 2014 e Unicredit sui minimi del gennaio 2012, toccati anche la scorsa  settimana. (…) ‘Ci aspettiamo impatti negativi molto rilevanti nel breve sul settore azionario  italiano e in particolare per i titoli del settore finanziario (banche, assicurazioni e asset managers) e  i titoli industriali ciclici per un significativo aumento del premio al rischio ­ è il commento di  Intermonte alla sorpresa Brexit ­ In termini relativi potrebbero performare meglio i titoli del settore  utility, lusso e consumers meno esposti alla volatilità’”.

A terrorizzare gli analisti è quindi soprattutto il percorso travagliato che sancirà il divorzio tra  Londra e Bruxelles, perché serviranno almeno due anni di negoziati che alimenteranno solo le  incertezze. E se già solo nella mattinata di oggi tra crolli in Borsa e svalutazione della sterlina  stiamo assistendo ad una ‘decimazione dei soldi’ ­ tra poco conosceremo il dato di quante migliaia  di miliardi avranno bruciato oggi le piazze affari di tutto il mondo ­ la cosa rischia di cronicizzarsi  e dare vita ad una nuovo periodo negativo per l’economia se non sarà gestita con la massima  attenzione. Haruhiko Kuroda, numero uno della Boj, la banca giapponese, ha assicurato che  lavorerà a stretto contatto con gli altri governatori centrali per stabilizzare i mercati.

In particolare, i banchieri stanno pensando di utilizzare ­ come già accaduto durante la crisi del 2008 ­ un accordo  di “currency swap” che permetterebbe alla banche centrali di rifornirsi di dollari presso la Federal  Reserve mantenendo poi invariato il tasso di cambio al momento della chiusura dell’operazione: in  questo modo l’oscillazione delle valute sarebbe limitata. Anche la Banca d’Inghilterra è intervenuta  spiegando che farà “tutto il necessario per assicurare la stabilità dei mercati” e ha annunciato che  sarà pronto a sostenere la sterlina mettendo a disposizione 250 miliardi per altre operazioni di  mercato. Per ora, la Banca Centrale Europea non è ancora intervenuta, ma, come detto dal  governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, anche a Francoforte sono pronti a intervenire, ove  necessario, usando i tassi d’interesse, oltre ad altri strumenti come gli swap o i repo.  Carney, il governatore della Banca d’Inghilterra si trova nella posizione più delicata ed anche in  una situazione estremamente complessa: da una parte, la tentazione potrebbe essere quella di  abbassare i tassi d’interesse per dare slancio all’economia e evitare il rischio di una lunga  recessione.

D’altra parte, il crollo della sterlina farà costare di più le merci importate, spingendo in  alto l’inflazione. Questo potrebbe richiedere un aumento dei tassi d’interesse per convincere gli  investitori a lasciare i loro capitali in Gran Bretagna a costo e frenare la caduta del cambio. Il  rischio, però, è quello di peggiorare un’eventuale recessione.  Secondo l’analisi di Donato Masciandaro “il rischio più grosso è che uno shock regionale e  finanziario nel brevissimo periodo – questo è il Brexit ­ si trasformi nel detonatore di una nuova  recessione mondiale. E quale potrebbe essere la miccia? Un dollaro instabile. Il dollaro può  divenire l’acceleratore della crisi mondiale prossima ventura”, ragion per cui le banche centrali  dovrebbero concentrari sulla stabilizzazione della divisa statunitense.