Giardiello, Conte Tacchia di nero e firme false. L’ultimo imbroglio: l’infarto

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 10 Aprile 2015 - 12:36 OLTRE 6 MESI FA
Conte Tacchia

La locandina del Conte Tacchia con Enrico Montesano

MILANO – ‘Conte Tacchia’. Era questo il soprannome di Claudio Giardiello, l’uomo che giovedì mattina ha ucciso tre persone nel palazzo di Giustizia di Milano. Il Tacchia cinematografico aveva le sembianze di Enrico Montesano e doveva il suo nome, Tacchia appunto, a quella “tacchia” che in alcuni dialetti nient’altro è se non il pezzetto di legno con cui si fissano tavoli e mobili che altrimenti ballano. Una sorta di risolvi-problemi, ma Giardiello i problemi ormai da tempo non sapeva più risolverli, nemmeno nel modo tutt’altro che limpido cui era abituato, e per questo era finito sotto processo e si trovava nel tribunale del capoluogo lombardo.

Campano, ma brianzolo d’adozione, Giardiello era come si dice attivo nel campo immobiliare. Lui, insieme ai soci che ieri, tra l’altro, sembrava intenzionato ad uccidere venendo però fermato dai carabinieri prima che potesse farlo, aveva messo nel tempo su tre società. Società che compravano e rivendevano appartamenti, talvolta ristrutturandoli oppure partecipando alla costruzione. Fin qui nulla di strano o illecito, ma buona parte del giro d’affari di cui Giardiello faceva parte era in nero.

“Quel che si sa – racconta l’edizione on line del Corriere della Sera – è che la storia inizia nel 2002 e ruota attorno a due palazzine in via Biella, a Milano. L’immobile lo costruisce la Miani Immobiliare, società che fa capo per un 75% alla Cisep, in cui ha delle quote D’Anzuoni (D’Anzuoni è uno dei soci di Giardiello, quello che secondo le ricostruzioni era l’ultimo obiettivo del killer), e per il restante 25% alla Magenta immobiliare di Giardiello e Limongelli. La Magenta verrà dichiarata fallita nel 2008 ma sono i passaggi che portano al fallimento a scatenare, probabilmente, la rabbia di Giardiello. L’accordo prevedeva infatti che la Miani corrispondesse alla Magenta un 3% sugli appartamenti venduti. Soldi che, dice oggi l’avvocato di D’Anzuoni, vengono regolarmente versati. Ma il punto è un’altro: secondo l’accusa quel 25% di quota della Magenta serviva in realtà per far girare il ‘nero’, che poi i soci si spartivano secondo accordi ben precisi. In sostanza, i soldi che venivano corrisposti al compromesso, al rogito sparivano e finivano nella contabilità occulta”.

Seguono altri particolari che saranno oggetto della discussione in tribunale, ma che non aggiungono molto all’identikit del ‘nostro’ uomo. Molto di più dicono infatti i suoi gusti e le sue abitudini, come la passione per il gioco d’azzardo e per i casinò, passione che Giardiello pagava con assegni delle sue società immobiliari. Pratica che non poteva certo far la felicità dei suoi soci e che ha contribuito al fallimento delle società stessa tanto che, proprio da questi assegni, sarebbero partite le prime denunce al brianzolo d’azione. E vale la pena anche ricordare i soprannomi che gli altri del giro di Giardiello si erano dati: Tinto Brass, il Marchesino, il Predatore.

Da tacchia buona a fissare i mobili eliminando i problemi, Giardiello era divento ormai lui stesso un problema, tanti che sia le banche che la camera di commercio sapevano che prestare soldi a quel piccolo imprenditore che secondo Gad Lerner su Repubblica “somiglia maledettamente all’immobiliarista spiantato Dino Ossola, che nel film Il capitale umano di Paolo Virzì è interpretato da Fabrizio Bentivoglio, un arrampicatore disposto alla truffa pur di ascendere fra i nuovi ricchi della Brianza”, significava non vederli tornare indietro mai più.

La sua ultima creatura, la già citata Magenta, aveva un buco di quasi tre milioni di euro. Un ‘problemino’ che Giardiello aveva pensato di risolvere alla sua maniera, presentandosi in banca con una firma falsificata della ex moglie, sperando di ottenere con questa un fideiussione. Un vizietto, il falso, che gli ha anche aperto le porte, evidentemente troppo permeabili, del palazzo di Giustizia milanese, dove è entrato grazie ad un falso tesserino che gli ha consentito l’accesso dall’ingresso senza controlli degli ‘addetti ai lavori’. E vizietto che lo ha accompagnato sin nella caserma dei carabinieri dove, dopo l’arresto, ha finto un attacco cardiaco raccontando di soffrire di cuore. Ultima interpretazione di una tacchia ormai senza utilità.