Cocò ucciso sul seggiolino. Per chi ha sparato l’inferno, anche in terra

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 21 Gennaio 2014 - 14:14 OLTRE 6 MESI FA
Il piccolo Cocò (Ansa)

Il piccolo Cocò (Ansa)

 

REGGIO CALABRIA – “Cocò era seduto sul seggiolino quando lo hanno ucciso – racconta Maria Corbi su La Stampa -. Chissà se hanno guardato quegli occhi neri e innocenti prima di premere il grilletto”. Un particolare atroce che rende, se possibile, ancor più orribile e assolutamente disumana l’uccisione di Cocò, il bambino di 3 anni assassinato insieme al nonno e alla sua compagna nelle campagne calabresi. Un delitto per cui, Claudio Magris sul Corriere della Sera, si augura che “l’inferno esista e sia eterno”. Ma se l’inferno non esistesse, e se la pena di morte non è eticamente condivisibile, quale può essere la punizione adeguata per questi mostri. “Li prenderemo presto” assicurano gli inquirenti e, anche se non è politicamente corretto dirlo e nemmeno pensarlo, speriamo che quando li prenderanno gli capiterà di “inciampare sulle scale” e farsi almeno un po’ male.

“Talora si fa fatica – scrive Magris – a rimanere contrari alla pena di morte e oggi è difficile pensare che il posto più consono agli assassini – sicari e mandanti, egualmente immondi, di tre persone, fra cui un bambino di tre anni, Nicola, ucciso e bruciato al pari degli altri – non sia la forca o altra analoga soluzione acconcia.  È morto a tre anni e la sua morte grida vendetta più del sangue di Abele”.

Anche chi è fermamente contrario alla pena capitale, anche chi è convinto della sua inutilità oltre che della sua crudeltà, si trova, di fronte ad orrori simili, nella singolare condizione dell’essere disaccordo con se stesso. Difficile non provare infatti un’assolutamente umana voglia di vendetta pensando a come saranno andate le cose. Pensando a chi ha puntato una pistola di fronte ad un bambino di 3 anni seduto sul seggiolino di un auto, a chi gli ha sparato a sangue freddo, a chi non è stato in grado di provare nemmeno un briciolo di pietà umana di fronte a un bambino probabilmente già in lacrime, spaventato, e comunque di fronte ad un essere innocente che a vivere non aveva nemmeno iniziato.

Umana voglia di vendetta da una parte, ma non solo questo. L’idea di fondo di chi non concepisce la pena di morte è quella che la punizione per un delitto debba prevedere una rieducazione, una seconda possibilità. Ma quale rieducazione, quali ulteriori possibilità si possono dare a degli esseri che definire umani è dura, molto dura, che agiscono in questo modo. Persino gli animali, nella maggior parte dei casi, mostrano un’affezione e un riguardo per i cuccioli altrui, compresi quelli delle specie diverse dalla loro.

La mattina di Capodanno del 1926 – scrive Massimo Gramellini -, al comando di ottocento guardie a cavallo, il prefetto Cesare Mori cinge d’assedio Gangi, che in quel momento è la cittadella riconosciuta dei mafiosi. Mori, non per nulla detto “il prefetto di ferro”, procede al rastrellamento casa per casa e sequestra tutte le donne e i bambini, raggruppandoli al centro della piazza principale. Concede ai mafiosi un ultimatum di 12 ore. Non sapremo mai cosa avrebbe fatto davvero di quelle donne e di quei bambini perché allo scoccare dell’undicesima ora Gaetano Ferrarello, il “capo dei capi” dell’epoca, esce a braccia alzate dal suo nascondiglio, che manco a farlo apposta si trova nel sottotetto della stazione locale dei carabinieri.  Se il prefetto Mori era arrivato a usare i bambini di un paese intero come arma di ricatto è perché sapeva che per la mafia del 1926, certo non meno crudele di quella di oggi, esistevano limiti invalicabili, legati a concetti come l’onore, che impedivano di torcere anche solo un capello a un minorenne. (…) Ai tempi di Mori, mafiosi camorristi e ‘ndranghetisti avrebbero considerato questo tipo di crimine una macchia indelebile alla loro onorabilità. Ora non è più così e questa certezza, insieme con un grande dolore, ci dà anche una piccola speranza. Una mafia che ammazza impunemente i bambini non potrà mai più essere circondata da quell’alone di rispettabilità e persino di fascino che ha fatto per secoli la sua fortuna tra la gente comune”.

Questa è l’unica, magra anzi magrissima consolazione che questa storia può lasciare. La speranza che i responsabili di una tale atrocità possano perdere quel silenzioso consenso e rispetto che gli hanno garantito la sopravvivenza nell’ultimo secolo e mezzo. Una consolazione magra ma, per chi non crede nell’aldilà e non può rassegnarsi all’idea che la pena di morte sia una soluzione, forse l’unica.