Economico o disciplinare: doppio trucco e licenziati tutti in Tribunale

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 22 Marzo 2012 - 15:00 OLTRE 6 MESI FA

Lapresse

ROMA – La querelle sulla riforma del mercato del lavoro e sulla modifica dell’articolo 18 è, almeno per ora, prima che una questione pratica un nodo politico. Il Pd si gioca la faccia con il suo elettorato e la Cgil si prepara alla guerra. Dall’altra parte il Pdl strizza l’occhio ai piccoli e medi imprenditori che costituiscono il suo bacino elettorale, già colpito dal ritorno dell’Ici che Berlusconi aveva promesso “mai più” e dalle liberalizzazioni. Ma se riforma sarà, quelle che i lavoratori vedranno saranno le conseguenze pratiche e non le chiacchiere. E seppur all’interno di un impianto chiaro, la riforma che il governo Monti si appresta a presentare al Parlamento, porta in sé dei rischi. E quello più grande, quasi fisiologico, è che la modifica dell’articolo 18, così come è stata presentata, porti all’intasamento dei tribunali.

L’articolo dello Statuto dei Lavoratori che regola i licenziamenti, nella nuova versione, distinguerà 3 tipologie di licenziamento: discriminatorio, disciplinare ed economico. Per i primi due è prevista la possibilità di reintegro del lavoratore qualora un giudice lo stabilisca. Per la terza no. Ovvio è, ma diciamo probabile per essere politicamente corretti, che molti imprenditori classifichino e facciano rientrare nella categoria dei licenziamenti “economici” anche alcuni che tali non sono. Come ovvio, anzi probabile, sarà che molti licenziati facciano comunque ricorso alla magistratura, anche in caso di licenziamento “economico”, nella speranza che il giudice possa riconoscergli il licenziamento come “discriminatorio” o “disciplinare”. Una manna per gli avvocati del lavoro e una tragedia per i tribunali che vedranno piovere su di loro una pioggia ancor più fitta di quella che oggi li colpisce di cause del lavoro. Senza tener conto poi se sia giusto o meno demandare di fatto la questione licenziamenti ai tribunali.

“La magistratura – dice Maurizio Del Conte, docente di Diritto del lavoro alla Bocconi di Milano, sentito da La Stampa – sarà sempre più chiamata a decidere sulla liceità e sulla tipologia dei licenziamenti, a cui corrispondono indennizzi e sanzioni diverse”. Se vede il minimo appiglio il dipendente sarà giocoforza incentivato a ricorrere. Con un paradosso, nota Del Conte: “La riforma potrebbe incentivare l’iscrizione al sindacato di molti lavoratori, proprio per tutelarsi meglio”. Tutto ciò in un Paese già sommerso da 260 mila cause di lavoro pendenti (nel 2011 c’è stata una ulteriore impennata del 35%).

Il Pd esplicitamente, e la Cgil tra le righe, hanno poi già fatto sapere che loro preferirebbero che tutto fosse rimandato al giudice “ufficialmente”. Cioè che anche il licenziamento economico fosse materia di pronuncia dei tribunali. Ufficiale o meno tutto lascia supporre che lo sarà comunque. Anche perché, nell’impianto della riforma teoricamente molto chiaro, sembra essersi pensato poco alla traduzione pratica. Come si farà infatti, in molti casi, a distinguere tra licenziamento economico e non?

Prendiamo ad esempio il caso dei lavoratori Fiat iscritti alla Fiom e licenziati, con il nuovo articolo 18 un’azienda in cattive acque come la Fiat avrebbe pieno diritto di licenziare, ma un sindacalista che sta protestando può rientrare a pieno titolo sia nella categoria dei licenziamenti discriminatori che disciplinari. Come si farà allora a stabilire qual è la ragione prima, o quantomeno principale, che ha spinto l’azienda a licenziare? Una domanda che purtroppo, stando alla riforma com’è oggi, non trova risposte. Quantomeno non ne trova di uniformi e universali, saranno i singoli giudici a valutare i singoli casi, con conseguente ingolfamento dei tribunali e probabili disparità di trattamento. Non è infatti detto che due giudici di due diversi tribunali emettano la stessa sentenza.

La questione tempi poi, annoso problema che la nostra giustizia si porta dietro da decenni. Oggi, una causa di lavoro, ha una durata media che cambia sensibilmente a seconda delle città (266 giorni a Milano, 429 a Roma e 200 a Torino) e dei giudici, lenti o veloci (da 179 giorni a 693). Lasciando lavoratori e imprese in un limbo di incertezza e di maggiori/minori costi. A Torino, dove ci sono i giudizi più rapidi, ci vogliono comunque quasi 6 mesi, per il primo grado s’intende. Domani quanto ci vorrà? E cosa faranno aziende e lavoratori nell’attesa? Anche queste sono domande prive di risposta.

Vediamo però com’era e come sarà (forse) l’articolo 18 per le 3 categorie di licenziamenti:

A) Discriminatorio: quando un lavoratore viene licenziato perché sindacalista o perché ha preso parte ad uno sciopero, per ragioni di sesso, religione o razza, perché ha espresso opinioni differenti a quelle del suo datore di lavoro o perché disabile. Per questa tipologia non cambia nulla: la legge prevedeva e prevederà l’annullamento del licenziamento e il reintegro.

B) Disciplinare: quando un lavoratore viene sorpreso a rubare in azienda o quando si rifiuta di svolgere le mansioni richieste, o ancora in caso di malattia ingiustificata, di condotta penalmente rilevante o se violento con i colleghi. Oggi, se il giudice ritiene che il licenziamento sia privo di giusta causa, ordina il reintegro del lavoratore. Domani, se il lavoratore sarà stato allontanato senza giusta causa, il giudice potrà scegliere tra reintegro ed indennizzo.

C) Economico: quando cioè il licenziamento è dovuto alla necessità dell’azienda di ridurre personale e costi. Oggi l’azienda non può muoversi autonomamente e, qualora lo facesse, il giudice disporrebbe il reintegro. Domani, con la nuova legge, saranno previsti solo indennizzi economici.