Fave, piselli, mafia: un fuori cella al di sotto di ogni sospetto

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 23 Marzo 2012 - 15:56 OLTRE 6 MESI FA

PALERMO – Su La Stampa di oggi 23 marzo compare un colonnino dal titolo: “Intollerante al menù del carcere: scarcerato”. Sembra una di quelle notizie della serie “strano ma vero” della settimana enigmistica, invece è una notizia di quelle vere. E non accade in qualche remoto angolo del globo, ma in Italia, a Sulmona, in un carcere di massima sicurezza. Lo scarcerato poi non è proprio quello che si potrebbe definire un “rubagalline”, è Michele Aiello, ingegnere e imprenditore sanitario, regista della rete di talpe in procura che forniva informazioni a personaggi del calibro di Bernardo Provenzano, boss a cui Aiello è ritenuto molto vicino, condannato per associazione mafiosa, corruzione e svariati altri reati a 15 anni e 6 mesi di detenzione. Personaggio a cui sono stati confiscati un patrimonio di 800 milioni di euro e tre avviatissime cliniche. Condannato nello stesso processo in cui era imputato anche l’ex governatore della Sicilia Totò Cuffaro, in carcere a Roma.

Bene, anzi male: quest’uomo è stato scarcerato e mandato a casa, ai domiciliari, perché affetto da favismo, cioè perché è allergico alle fave. Altro che evasioni spettacolari o fughe rocambolesche dagli ospedali, per lasciare il carcere basta un’allergia. Il cinema probabilmente risentirà di questa verità, ma esperti ed autorità giudiziaria hanno deciso così: Aiello è allergico alle fave e quindi non può stare in carcere. Per carità, il favismo è una malattia seria e vera, e chi ne è affetto può avere gravissime conseguenze entrando in contatto con gli alimenti in questione. Ma è sinceramente incredibile e risibile pensare che a Sulmona si mangino sempre e solo fave e piselli. Tanto più che l’ordinamento penitenziario stabilisce che ci sia “un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata all’età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro, alla stagione, al clima”. Un’alimentazione che va bene a tutti quei detenuti che soffrono di diabete o che sono ipertesi, e che va bene anche ai musulmani, che non mangiano maiale e non bevono alcolici.

Un’alimentazione che va bene per tutti ma non per un soggetto affetto da favismo. Una pasta in bianco non si può fare? Vicenda singolare che lascia più d’un dubbio sulla motivazione che ha portato Aiello comodamente sul suo divano di casa. E’ poi Aiello l’unico soggetto affetto da favismo in tutta la popolazione carceraria? E gli altri nelle sue condizioni, sono tutti a casa? La Stampa riporta poi stralci della richiesta e della sentenza che hanno concesso al detenuto Aiello la misura dei domiciliari, stralci che meritano di essere riportati e letti.

“Negli elaborati – scrive il tribunale presieduto da Laura Longo – si evidenzia che il vitto del carcere non ha consentito un’alimentazione adeguata al detenuto, risultando dal diario nutrizionale la presenza di alimenti potenzialmente scatenanti una crisi emolitica e assolutamente proibiti. Tale alimentazione impropria, riproposta anche giornalmente, ha indotto il detenuto a digiuni ripetuti e spesso consecutivi, che hanno cagionato lo scadimento delle condizioni generali e il successivo dimagrimento con calo di circa 10 chili”.

Cioè a Sulmona si mangiano, anche più volte al giorno fave e piselli. Evidentemente il cuoco deve avere un flirt con un ortolano specializzato in questo tipo di legumi. Ma c’è dell’altro: gli esperti Antonello Colangeli e Brigida Galletti concordano nel ritenere “la prosecuzione dello stato detentivo nocumentosa e che i problemi più gravi per il detenuto scaturiscono dal favismo”. Sulla seconda affermazione non ci sono dubbi, una condanna a 15 e passa anni è per Aiello un problema più facile da risolvere che non il favismo. Così i giudici hanno ritenuto, bontà loro, che dalla perizia “sia emerso un quadro complesso e grave che espone il soggetto a serio e concreto rischio di vita o ad irreversibile peggioramento delle già scadute condizioni fisiche”. E così domiciliari e differimento della pena di un anno. Una domanda sorge però spontanea: possibile che non ci sia in Italia un carcere in grado di fornire un pasto adeguato ad un soggetto affetto da favismo? Possibile che in quel carcere non si possa cambiare menù? Pare di no, e quindi arriva il “fuori di cella”, regolare, legale e timbrato. Ma anche un fuori di cella al di sotto di ogni sospetto.