Isis lancia bambini bomba. E li fa esplodere a distanza
Pubblicato il 22 Agosto 2016 - 14:10 OLTRE 6 MESI FA
ROMA - Aveva 12 anni quello che si è fatto esplodere alla festa di nozze dei nemici curdi. Si è fatto esplodere o è stato fatto esplodere da un comando a distanza. Uno dei “Leoncini” come vengono chiamati dai media internazionali, piccoli Istishhad come suggerirebbe la lingua araba o più semplicemente bambini bomba, cioè quello che sono. E’ l’ultima orribile arma messa in campo dal Califfato che, dalla Siria all’Irak passando per la Turchia, usa sempre più questa soluzione per portare morte e paura. Una scelta figlia di due fattori su tutti: in primis la speranza, di solito ben fondata, che i bambini pur imbottiti di esplosivo possano più facilmente passare i controlli delle varie security e, secondo, la necessità di sfruttare tutte le risorse disponibili anche e soprattutto in un momento in cui le fila Abu Bakr alBaghdadi e dei combattenti dello Stato Islamico vanno assottigliandosi.
“Usano i bambini perché sono un simbolo di innocenza ed è più facile farli passare attraverso i controlli – spiega Guido Olimpio sul Corriere della Sera. I terroristi scommettono sull’indulgenza delle sentinelle o del servizio di sicurezza, ritengono – non a torto – che magari davanti a un minore l’attenzione della guardia sia meno forte. Ed eccoli saltare per aria in mezzo alla folla in Medio Oriente, in Africa o in Afghanistan agli ordini dei talebani. Due volte vittime: prima reclutati, quindi mandati a morire tra gli innocenti. Molti movimenti jihadisti hanno fatto ricorso a quest’arma, terribile, letale, inesauribile. Un modus operandi che porta all’emulazione e alla celebrazione propagandistica dei ‘leoncini’, indicati a esempio, modelli di lotta irriducibile. E non sarebbe una sorpresa se – come sostiene il governo turco – l’azione kamikaze al matrimonio di Gaziantep sia stata condotta proprio da un adolescente”.
Non una sorpresa perché se anche sono notizia di questi giorni sia il presunto baby kamikaze turco che il fermo del teenager con la maglia di Messi e sotto una cintura esplosiva, l’idea del Califfo e non solo sua di usare minori come bombe più o meno telecomandata non è certo nata oggi ma ha, invece, radici ben più vecchie. In un rapporto pubblicato lo scorso febbraio, realizzato per conto dell’Accademia Militare di West Point, ‘The Islamic State is mobilizing children and youth at an increasing and unprecedented rate’, erano infatti confermati 89 attacchi suicidi compiuti da minori in Iraq e Siria dalla metà del 2014. Il 60% avevano fra i 12 e i 16 anni, la fascia di età del kamikaze di Gaziantep, e almeno undici erano tra gli 8 ed i 9 anni. Solo nel 2015 sono apparsi almeno una ventina di video con protagonisti i ‘leoncini’.
In genere l’ambiente è idilliaco, zone verdi vicino a Raqqa, lungo l’Eufrate, dove i piccoli studiano, pregano e sparano all’aperto, saltano ostacoli, recitano sure del Corano e imparano le arti marziali. E proclamano di sognare il martirio nella guerra contro gli infedeli. Studiano, perché per formare questi piccoli kamikaze esistono delle scuole dove i bambini bomba vengono indottrinati. Migliaia di piccoli frequentano i nuovi corsi imposti dall’Isis in tutto il territorio sotto il suo controllo. Che prevedono due pilastri: Islam nella versione salafita più estremista possibile, istruzione militare fin dalle prime classi e, finita la scuola, ci sono i campi di addestramento veri e propri dove si impara ad usare pistole e kalashnikov a dieci, dodici anni, vestendo piccole tute mimetiche e proclamando che il più grande desiderio della vita è diventare ‘shahid’, ‘martiri’.
Un lavaggio del cervello di cui ora vediamo gli esiti ma che in Africa è già da tempo realtà. E se l’indottrinamento non da certezze sufficienti sulla capacità almeno dei più piccoli di farsi saltare in aria, si sfruttano detonatori a distanza. Cioè si vestono i piccoli con le cinture esplosive, li si manda in un mercato come soprattutto Boko Haram usa fare, e poi qualcuno appositamente in loco preme il bottone che fa esplodere la bomba.
FOTO D’ARCHIVIO