Tangenti: chi denuncia è “spia” e finisce male. Italia story

di Alessandro Camilli
Pubblicato il 19 Febbraio 2016 - 15:07 OLTRE 6 MESI FA
Foto Ansa

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ROMA –E’ più o meno sempre la stessa Storia: in Italia chi denuncia le mazzette non fa una bella fine. Storia con la maiuscola, perché va avanti così da almeno 150 anni, almeno.

In Italia rivolgersi allo Stato quando ci si trova di fronte a tentativi di corruzione, alla classica mazzetta chiesta o offerta, è una scelta decisamente azzardata: denunciare non conviene. E non è solo la cronaca, ma la storia stessa del nostro Paese a dimostrarlo. Mentre in Parlamento si discute, a dire il vero in modo decisamente stanco, di una legge sul cosiddetto whistleblowing, cioè sulle tutele per chi denuncia i comportamenti illeciti, Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera ricostruisce un mini storia delle sconfitte collezionate da chi, dall’unità d’Italia in poi, ha avuto l’ardire di rivolgersi alla Legge di fronte alla corruzione.

“Successe un secolo e mezzo fa a Cristiano Lobbia – scrive Stella -, il patriota garibaldino e deputato che per primo denunciò al Parlamento di Firenze la vergognosa cessione per quindici anni a faccendieri raccolti intorno al Credito Mobiliare, in cambio di un’anticipazione di cassa di 180 milioni (meno della metà di quelli offerti senza accordi-capestro da finanzieri parigini e londinesi) della Regia Tabacchi, il monopolio che rappresentava allora secondo il banchiere Rothschild ‘l’unica entrata sicura dello Stato’.

Fu fatto a pezzi, il Lobbia. Tentarono di ammazzarlo, gli scatenarono addosso un processo infame per procurato allarme dal quale troppo tardi sarebbe uscito vittorioso, allestirono una macchina del fango per demolire la sua immensa popolarità, tennero per mesi chiuso il Parlamento teorizzando che a Camere chiuse non c’era l’immunità… Quando gli restituirono l’onore, dopo anni di strani suicidi e morti improvvise, era ormai un uomo finito. Destinato a morire, a 50 anni, di crepacuore”.

Non è, quello di Lobbia, che il primo di una lunga serie di casi di cui conosciamo, ovviamente, solo quelli noti, quelli cioè finiti sulle cronache per importanza o per caso ma, a fianco di questi, è lecito immaginare che ce ne siano moltissimi altri di cui il grande pubblico nulla sa.

Dall’unità d’Italia ai giorni nostri, anche il destino dell’uomo che fece esplodere Mani Pulite, di certo il più grande scandalo corruttivo della storia moderna del nostro Paese, ha vissuto una parabola discendente. Si tratta di Luca Magni, nel ’92 giovane imprenditore lombardo alla guida di un’impresa di pulizie, che si ribellò alle pretese di Mario Chiesa, il presidente del Pio Albergo Trivulzio che per una commessa voleva una tangente, e aiutò i carabinieri a incastrare l’estorsore.

Da lì iniziò il tutto che culminò con il crollo di Bettino Craxi e gran parte dei partiti della Prima Repubblica. “Rifarei tutto – raccontò vent’anni dopo Magni -. Ma cercherei di tutelarmi di più. Ho denunciato il sistema delle tangenti che strozzava la mia azienda ma non potevo prevedere che in poco tempo avrei perso tutti gli appalti. Dopo la denuncia, gli enti pubblici non mi hanno più invitato alle gare. Nel ‘92 l’azienda fatturava un miliardo di lire, nel ‘94 solo 200 milioni. Non ho messo in conto le ritorsioni economiche e lavorative che avrei incontrato. L’azienda, così, è fallita”.

E poi Massimo Mola, il vigile urbano da cui partì l’inchiesta che nel 1999 travolse la sanità lombarda. Mola rifiutò all’epoca una tangente di 300 milioni offertagli da Giuseppe Poggi Longostrevi nel tentativo di insabbiare un abuso edilizio. Da questo si partì per arrivare a scoprire una truffa ai danni dello Stato da 60 miliardi di euro. Per lui, per Mola, mai un encomio che non fosse una pacca sulle spalle dagli amici.

Episodi vicini e lontani nel tempo ma sempre presenti nella storia d’Italia. Dall’altro protagonista della denuncia che fece crollare il sistema corrotto intorno alla sanità lombarda, il manager sanitario Giuseppe Santagati che fu sostanzialmente cacciato e sostituito da un suo omonimo, incredibile coincidenza, sino a Giacomo Matteotti, il leader socialista che secondo diversi storici potrebbe essere stato ucciso non solo per le sue denunce delle pratiche fasciste ma anche per avere scritto un articolo pubblicato dopo la sua morte da English Life sulla condotta della Banca Commerciale e sui rapporti del governo Mussolini con la Sinclair Oil Company.

Per combattere la corruzione, l’economia sommersa e persino l’evasione fiscale bisognerebbe ragionare e agire anche su questo, perché l’ostracismo che questo Paese riserva a chi fa il proprio dovere, anche semplicemente non adeguandosi al ‘così fan tutti’, è parte di quella cultura della legalità, quel senso dello Stato che alla gran parte degli italiani evidentemente manca. Da sempre o quasi, comunque da tanto. La storia è lì a documentarlo.