Benedetto XVI: il rebus del ritorno in Vaticano. L’esilio del “papa di Castel Gandolfo”

di Antonio Sansonetti
Pubblicato il 1 Marzo 2013 - 20:39| Aggiornato il 19 Agosto 2022 OLTRE 6 MESI FA

CITTÀ DEL VATICANO – Tornerà mai a Città del Vaticano il “papa emerito” Joseph Ratzinger? Ci sarà veramente una Chiesa con due papi? È vero che il prossimo papa sarà “per sempre“, ovvero che dovrà giurare di portare avanti il proprio pontificato fino al termine della propria vita? Questi sono i rebus da sciogliere, gli interrogativi che animano i corridoi vaticani, stanze inquiete dietro i sorrisi che hanno accompagnato l’uscita di scena di Benedetto XVI. Un papa che ha incontrato le prime vere luci della ribalta solo quando ha annunciato al pubblico (plaudente) che stava abbandonando il palcoscenico.

Se le dimissioni di papa Ratzinger devono essere riassunte in un’immagine, non sarà quella del suo volto disteso che sorride ai fedeli dal terrazzo di Castel Gandolfo, o quella della sua figura che volge le spalle al “ministero petrino” per ritirarsi in clausura. La foto simbolo sarà quella del fulmine che colpisce la cupola di San Pietro. Un fulmine a ciel tutt’altro che sereno, come la Chiesa prima e dopo le dimissioni di Benedetto XVI.

La paura, la “rivoluzione Ratzinger” e il giuramento. Massimo Franco, come molti che si stanno occupando di Vaticano in questi giorni, cita fonti “autorevoli e anonime” quando riporta questa frase:

«Alcuni cardinali chiederanno al nuovo papa di inserire nel suo discorso inaugurale un punto fermo: che un pontefice di solito sceglie di esserlo per sempre. La norma sulle dimissioni non si può abolire. Ma per il futuro bisogna garantire la libertà della Chiesa da condizionamenti esterni…»

La preoccupazione che trapela è quella di chiudere la scelta di Benedetto XVI nel recinto di una parentesi all’interno della storia bimillenaria della Chiesa. Una storia in cui il papa, uno e infallibile, riceve il suo incarico direttamente da Dio e dallo spirito Santo che guida le scelte del conclave. Non si può volgere le spalle a Dio. Non lo fece Giovanni Paolo II, e i più scettici verso la decisione di Ratzinger ricordano quando lui stesso, influente cardinale tedesco, fece capire al papa polacco provatissimo dal Parkinson che “dalla croce non si scende”: ovvero che si smette di essere pontefici solo morendo. “Dalla croce non si scende”, ha commentato all’indomani dell’11 febbraio l’ex segretario di Wojtyla, il cardinale Stanislaw Dziwisz, arcivescovo di Cracovia. “Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo”, gli ha risposto indirettamente Ratzinger il 27 febbraio.

La Chiesa non è un consiglio d’amministrazione. E il papa non è un amministratore delegato qualsiasi, né un presidente del Consiglio: così la pensa la maggioranza di quelli che decideranno il futuro del papato. A loro parere, non è questione neanche di maggioranza o minoranza: democrazia e sacro non andrebbero d’accordo. Dio è monarca. Ma c’è anche una teologia “di sinistra” – un nome su tutti, Hans Küng – che la pensa in maniera totalmente opposta. Del dibattito ne dà conto un sito molto dentro alle cose vaticane, corrispondenzaromana.it:

“la rinuncia di Benedetto XVI non potrà essere banalizzata o archiviata, magari richiamandosi alla legittimità secondo le norme del diritto canonico.  […] L’immagine dell’istituzione pontificia, agli occhi dell’opinione pubblica di tutto il mondo, viene infatti spogliata della sua sacralità per essere consegnata ai criteri di giudizio della modernità. […]

Non si può fare un paragone né con Celestino V, che si dimise dopo essere stato strappato a forza dalla sua cella eremitica, né con Gregorio XII, che fu costretto a sua volta a rinunciare per risolvere la gravissima questione del Grande Scisma d’Occidente. Si trattava di casi di eccezione. […] In duemila anni di storia, quanti sono i Papi che hanno regnato in buona salute e non hanno avvertito il declino delle forze e non hanno sofferto per malattie e prove morali di ogni genere? Il benessere fisico non è mai stato un criterio di governo della Chiesa. […]

La teologia progressista sostiene invece, in nome del Concilio Vaticano II, una riforma della Chiesa, in senso sacramentale e carismatico, che oppone la potestà d’ordine alla potestà di giurisdizione, la chiesa della carità a quella del diritto, la struttura episcopale a quella monarchica. Al Papa, ridotto a primus inter pares all’interno del collegio dei vescovi spetterebbe solo una funzione etico-profetica, un primato di «onore» o di «amore», ma non di governo e di giurisdizione. In questa prospettiva è stata evocata da Hans Küng, e da altri, l’ipotesi di un pontificato “a termine” e non più a vita, come forma di governo richiesta dalla velocità di cambiamento del mondo moderno e dalla continua novità dei suoi problemi. «Non possiamo avere un Pontefice di 80 anni che non è più pienamente presente dal punto di vista fisico e psichico», ha dichiarato all’ emittente “Südwestrundfunk” Küng, che vede nella limitazione del mandato del Papa un passo necessario per la riforma radicale della Chiesa. Il Papa sarebbe ridotto a presidente di un Consiglio di amministrazione, ad una figura meramente arbitrale, con a fianco una struttura ecclesiastica “aperta”, quale un sinodo permanente, con poteri deliberativi.

Il Papa “emerito” o vescovo? Per questo non appare superflua la questione su come sarà chiamato Ratzinger. Sandro Magister, vaticanista dell’Espresso, cita la rivista dei gesuiti “La Civiltà Cattolica”, che sembra contraddire padre Federico Lombardi, gesuita e direttore della Sala Stampa della Santa Sede, che aveva comunicato ufficialmente la qualifica da attribuire al papa dimissionario: “Sua Santità Benedetto XVI papa emerito (oppure: romano pontefice emerito)”:

Ma nel lungo e dotto articolo che la rivista dedica al tema – “Cessazione dall’ufficio di romano pontefice”, scritto dall’illustre canonista Gianfranco Ghirlanda – si legge tutt’altro. Scrive a un certo punto padre Ghirlanda:

“È evidente che il papa che si è dimesso non è più papa, quindi non ha più alcuna potestà nella Chiesa e non può intromettersi in alcun affare di governo. Ci si può chiedere che titolo conserverà Benedetto XVI. Pensiamo che gli dovrebbe essere attribuito il titolo di vescovo emerito di Roma, come ogni altro vescovo diocesano che cessa”.

“L’esserci soffermati abbastanza a lungo sulla questione della relazione tra l’accettazione della legittima elezione e la consacrazione episcopale, quindi dell’origine della potestà del romano pontefice, è stato necessario proprio per comprendere più a fondo che colui che cessa dal ministero pontificio non a causa di morte, pur evidentemente rimanendo vescovo, non è più papa, in quanto perde tutta la potestà primaziale, perché essa non gli era venuta dalla consacrazione episcopale, ma direttamente da Cristo tramite l’accettazione della legittima elezione”.

E uno storico della Chiesa di primissimo piano – che è anche firma di pregio de “L’Osservatore Romano” – ha confidato che la formula “Sua Santità Benedetto XVI papa emerito” lo lascia sbalordito: “Neppure si rendono conto, questi sconsiderati, che pasticciando con le parole pongono loro le premesse per la demolizione teologica e giuridica del papato”.

Il “papa di Castel Gandolfo”. Tutte queste inquietudini fanno apparire sotto un’altra luce la proroga dell'”esilio” di Ratzinger a Castel Gandolfo. Inizialmente si era detto che per sistemare i suoi nuovi appartamenti in Vaticano, dove dovrebbe compiere “l’ultima tappa” del suo cammino “da pellegrino“, sarebbero bastati due mesi. Ora sono diventati tre. Probabilmente saranno di più. Probabilmente la Chiesa non sopporterà l’esistenza di due papi. La sola apparizione dell’ex pontefice ricorderebbe al mondo la fallibilità e la caducità del successore di San Pietro e del suo “ministero”.

Allora, in attesa che la natura faccia il suo corso, sarà nell’interesse della Chiesa e della sua nuova guida che Joseph Ratzinger sparisca dalla memoria corta dei media, che non diventi neanche un fantasma, ma solo un dimenticato “papa di Castel Gandolfo”.