Kirkuk, città-simbolo dell’Iraq Anno Dieci

di Antonio Sansonetti
Pubblicato il 28 Marzo 2013 - 07:50| Aggiornato il 2 Novembre 2022 OLTRE 6 MESI FA

KIRKUK (IRAQ) – A 10 anni dalla “fine” della seconda guerra del Golfo l’Iraq non conosce ancora pace. La “fine” fu dichiarata il 1° Maggio 2003 dall’allora presidente Usa George W. Bush, che tenne un discorso sul ponte della portaerei Lincoln. Al largo della California. Ma solo il 15 dicembre 2011, otto anni e mezzo più tardi, l’esercito Usa ha lasciato tutti i poteri alle autorità irachene.

Gli americani erano convinti di aver lasciato un Paese finalmente democratico e seduto su un mare di petrolio. Nei primi mesi del 2013, la produzione irachena di “oro nero” ha superato i 3 milioni di barili al giorno, superando l’Iran. Ci sarebbero tutti gli ingredienti per un presente di pace e prosperità. E invece gli iracheni continuano a non conoscere né l’una né l’altra.

I miliardi del petrolio rimangono nelle mani di pochi. E il piano di Nouri al-Maliki di mettere tutto il Paese sotto il controllo delle sue milizie sciite ha fatto infuriare sunniti e curdi. Il premier ha il suo esercito che si nasconde sotto la bandiera nera degli sciiti quando spara contro i manifestanti sunniti o contro gli stessi agenti di polizia. Gruppi armati controllano i loro “feudi” e ammazzano come e più della mafia o dei cartelli sudamericani. La corruzione dilaga in tutto il Paese. Ogni giorno esplode una bomba. Nella sola giornata di martedì 19 marzo, venti attentati hanno ucciso 65 persone.

È in questo contesto che migliaia di soldati del Commando Tigri sono partiti da Baghdad in direzione Kirkuk, la città più importante dell’Iraq curdo. È come se da Roma i reparti speciali dell’esercito partissero alla volta di Milano per scalzare i leghisti dal governo della Lombardia.

Il nord dell’Iraq è una zona strategicamente importantissima, confinante con la Siria a ovest, la Turchia a nord e l’Iran a est. Sui suoi cieli passano minacciosi gli F16 turchi che spiano i campi di addestramento del Pkk. Si incrociano con gli aerei che decollano dall’Iran diretti in Siria per portare rifornimenti alle truppe di Bashar al-Assad.

Kirkuk, dove nel 1927 fu scoperto il primo giacimento di petrolio dell’attuale Iraq, è la capitale dell’omonimo governatorato. Oltre 900.000 abitanti compongono la sua popolazione multietnica divisa fra arabi, curdi, turkmeni e siriaci. Le televisioni locali trasmettono in quattro lingue. Le quattro etnie e le due religioni (Islam e cristianesimo) convivono ora più pacificamente di quanto non abbiano fatto fino a qualche anno fa.

Nessuno dei quattro gruppi etnici ha preso il sopravvento sugli altri, il che significa che nessuno ha il controllo di Kirkuk ma tutti controllano tutti.

Gli americani pensavano che, una volta abbandonato dalle loro truppe, il territorio sarebbe diventato un campo di battaglia tra le diverse etnie, ma tutto ciò non è successo a Kirkuk, ribattezzata per questo la “Gerusalemme della Mesopotamia“.

La politica di Najmuddin Karim, il governatore venuto dagli Usa che da due anni ha fatto repulisti nell’amministrazione corrotta della città, è quella della convivenza e della stabilità. Curdo, vissuto 35 anni negli States e soprannominato “Bulldozer”, Karim ha portato l’elettricità a Kirkuk praticamente per tutta la giornata (20 ore su 24, rispetto alle quattro di due anni fa).

Kirkuk, come il resto del Paese, fatica però a scollarsi di dosso corruzione e violenza. Dopo che al-Maliki è diventato premier nel 2006 lo hanno accusato di piazzare uomini sciiti in tutti i posti di potere. Qualcuno borbotta durante le piccole proteste locali: “Questa non è democrazia”. I sunniti si sentono messi da parte e temono di essere cacciati dai curdi, visti i brutti episodi del passato di Saddam (Saddam decise di espellere decine di migliaia di curdi dall’area negli anni 90).

Maliki ha creato nuove unità militari che controlla personalmente e le forze speciali del Commando Tigri, sotto il comando di uno sciita che sembra il sosia di Saddam. Dal 2010, oltre a ricoprire l’incarico di primo ministro, è anche a capo degli Interni e della Difesa. Dopo tre anni di quiete sono tornati i kamikaze, le autobombe, gli attentati, come raccontano le cronache degli ultimi mesi. C’è chi attribuisce le responsabilità a Maliki, chi è stufo della sua gestione, chi crede di essere stato abbandonato anche dall’intelligence che non bada più come prima agli attacchi terroristici.

La violenza va a braccetto con la corruzione: l’Iraq è al 169° posto su 174 paesi nella classifica di Transparency International’s Corruption Perceptions index. Cinque anni fa, un dipendente della Ambasciata degli Stati Uniti ha testimoniato davanti al Congresso degli Stati Uniti a Washington raccontando che Maliki avrebbe intimato a una commissione anticorruzione di non trasferire informazioni riservate o riguardanti indagini sul suo conto o su alti funzionari dello stato. A Baghdad la corruzione ha raggiunto proporzioni enormi: c’è una sorta di “tassa” da pagare, che varia dal cinque al dieci per cento del valore totale di un progetto, per ogni contratto o appalto che viene assegnato.

Maliki non ha di certo inventato la corruzione, ma la permette e ne alimenta il circolo. Chi non vuole sottostare alle sue regole viene tagliato fuori. Farid Jassim Hamud, che insegna alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Kirkuk sostiene che “la ricchezza dell’Iraq, ovvero il petrolio, è la sua stessa maledizione”.