Berlusconi, Fini e il Pdl: prendere atto di un fallimento

di Gennaro Malgieri
Pubblicato il 12 Novembre 2009 - 13:13| Aggiornato il 30 Settembre 2010 OLTRE 6 MESI FA

Quando i due fondatori e leader di un partito politico sono ai ferri corti, buon senso vorrebbe che se ne prendesse atto, da parte degli stessi, innanzitutto e poi da coloro che a vario titolo sono interessati, e si tirassero le conclusioni. Nel caso dell’infinita disputa tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini la conclusione non può che essere una: separazione consensuale con relativa dichiarazione di incompatibilità a soggiornare sotto lo stesso tetto senza per questo buttare a mare l’alleanza. Un conto, infatti, è tenersi forzatamente stretti in un partito unico nel quale l’aria sembra diventata irrespirabile, un altro è ribadire le ragioni dell’intesa e farle vivere in un contesto possibilmente più sereno, riassumendo in un modello federale (auspicabilmente) il rapporto tra la vecchia Forza Italia e la vecchia Alleanza nazionale.

Non sarebbe assolutamente scandaloso ammettere che il matrimonio non ha funzionato. Mentre sarebbe insopportabile, per gli elettori del centrodestra in primo luogo, se si continuasse a far finta di niente e ad andare avanti (per modo di dire) “a strappi”, guardandosi in cagnesco, litigando pubblicamente e privatamente ora sulla giustizia, ora sul parlamentarismo, ora sulla concezione stessa del partito.

Il bipolarismo coatto non funziona da nessuna parte; figuriamoci il bipartitismo malpancista messo in piedi per ragioni che ancora ci sfuggono, posto che nessuno ci ha spiegato perché mai Alleanza nazionale si è dovuta sciogliere in un indistinto contenitore rinunciando alla sua identità, alla sua storia, alla sua visione della politica in cambio sostanzialmente del nulla, dell’indistinto, dell’apparato dominato da una sola figura carismatica che non ammette competizioni al proprio interno. Le ragioni politiciste addotte per giustificare l’operazione non ci convinsero, né ci convincono oggi, ma ci rafforzano nel ritenere profondamente sbagliato l’approccio alla costruzione di un partito unitario attraverso la scorciatoia della “fusione a freddo”.

Intendiamoci, sarebbe stato magnifico, per la democrazia italiana, se An e Fi avessero entrambe superato le proprie identità creandone una diversa e più grande, frutto di culture politiche distinte affinatesi nel corso del tempo. Ma non è andata così. Purtroppo. E così non è andata neanche dalla parte opposta, nel centrosinistra logoro e cadente.

Le dinamiche che si sono dispiegate nel Pdl, dall’annuncio del predellino al congresso di fondazione, sono sempre state caratterizzate da ambiguità, contraddizioni, diffidenze. A dimostrazione che l’operazione non ha avuto la gestazione che s’immaginava dovesse avere, caratterizzata cioè da un’ampia discussione sulle idee, i principi, le strategie del nuovo soggetto politico. Il risultato oggi è sotto gli occhi di tutti. Le incomprensioni sono diventate fratture forse insanabili, le frizioni interne si sono acuite fino a trasformarsi in inimicizie plateali, i solchi nel terreno dei problemi cruciali (immigrazione, testamento biologico, alleanze) si sono approfonditi. I “soci” fondatori sbandano da una parte e dall’altra, mentre i leader si guardano in cagnesco.

Al punto in cui sono le cose del Pdl non rimane molto. E dunque, non dovrebbe essere difficile capire che sarebbe meglio piegarsi alla ricostruzione di un più ragionevole e mite rapporto coalizionale impostato tra i soggetti interessati, sulla base di una strategia politico-parlamentare condivisa, ma con la libertà di dissentire senza temere scomuniche o vedersi gettare addosso anatemi.

Se, al contrario, si dovesse insistere a stare insieme pur consapevoli del rapporto finito, non è fantasioso ritenere che dal logoramento potrebbero derivare conseguenze catastrofiche per la tenuta del governo e per il futuro stesso del centrodestra il quale va ripensato come uno schieramento effettivamente “plurale” in grado di captare voci e sensibilità diverse che s’affollano nella società civile.

Il monolitismo politico, come abbiamo constatato, non paga. Alla lunga crea disagi quando non si è stati capaci, tanto a destra quanto a sinistra, di costruire in questi ultimi anni soggettività politiche autenticamente nuove in grado di attivare i presupposti di un bipolarismo non soltanto funzionale a far fuori i piccoli partiti dal Parlamento, ma impegnato ad incanalare consensi diffusi attorno a idee e progetti alternativi. Dunque, meglio un taglio radicale con quello che è stato un sogno invece che una prospettiva e ricominciare daccapo.

Certo, non è facile rinunciare ad un progetto, per quanto discutibile comunque indubbiamente suggestivo, come il Pdl. Ma dal momento che siamo in presenza di una crisi dalla quale non si vede via d’uscita, probabilmente è meglio ripensare il tutto e risparmiare sia alla classe dirigente che agli elettori supplementi di angosce. Immaginare, infatti, di trascinare l’esperimento verso un incerto approdo per poi contemplarne l’impotenza propositiva è senz’altro un danno recato al centrodestra stesso che, a differenza del Pdl, è una realtà nell’Italia profonda bisognosa di essere interpretata nelle sue istanze morali, culturali e politiche. A questo possono provvedere partiti e soggetti con storie diverse che non è stato possibile sovrapporre e non è detto che non sia un bene per tutti.